sabato, dicembre 26, 2020

MANK

Mank

di David Fincher

con Gary Oldman, Amanda Seyfred, Lily Collins

USA, 2020

genere, drammatico, storico, biografico

durata, 131'



Dicevano i registi della Nouvelle Vague come pure il nostro Bernardo Bertolucci che un’opera in grado di raccontare una storia e al contempo di riflettere sullo strumento cinematografico avesse in se le caratteristiche per dirsi riuscita prima di iniziare a girarla.


Se diamo per buono il concetto e proviamo ad applicarlo al nuovo film di David Fincher ci si trova in un solo colpo di fronte a un’opera predestinata al successo fin da quando Netflix ha deciso di metterne in cantiere la produzione.


Delle caratteristiche appena menzionate Mank fa infatti sfoggio sia  quando si tratta di raccontare la tormentata stesura del copione di Quarto Potere dal punto di vista di chi – Herman Mankiewicz –  fu incaricato di scriverne il copione, sia quando si tratta di metterlo in scena facendo delle immagini della tormentata gestazione la diretta conseguenza delle parole che di mano in mano vengono battute sullo schermo dai tasti della macchina da scrivere compulsi dalla febbrile ossessione del protagonista.




Discorso sui massimi sistemi


Parlare di Quarto Potere e della sua maledizione equivaleva a scomodare la storia della settima arte ai suoi livelli più alti, assumendosi con ciò la responsabilità di confrontarsi con un discorso sui massimi sistemi che nell’acerrimo confronto  tra l’arte del cinema e la sua industrializzazione e nella scelta di una narrazione archetipica, ridotta cioè a poche ed emblematiche figure, ognuna con una sua precisa caratteristica e personalità, si spostava inevitabilmente su un ragionamento più generale in cui i concetti di bene e male, integrità e corruzione, verità e manipolazione diventavano la trasfigurazione delle opposte forze messe in campo dal film.



Giullare di corte


Al cospetto di un appuntamento così importante  Mank si comporta come tutte le grandi opere post moderne mischiando cultura alta e bassa, privilegiando comunque un atteggiamento non dogmatico mettendone a capo una figura come quella di Mankiewicz, destinato a comparire nel palcoscenico dei grandi nelle vesti del giullare di turno (in questo avvicinandosi al tono e ai personaggi presenti nell’opera dei fratelli Coen), vero e proprio guitto – nonostante il milieu intellettuale – e come quello destinato a divertire la corte ma dalla stessa al momento giusto a esserne congedato.


E non solo: perché con uno scarto che non lascia indifferenti relega il vero protagonista della vicenda – Orson Welles – nella parte del comprimario. Sorte anche peggiore tocca a chi di solito è abituato a stare in prima fila sul palcoscenico dello spettacolo.


A meno che non sia indispensabile (Marion Davis, amante del magnate dell’editoria William Randolph Hearst alias Charles Foster Kane), a essere cancellati sono proprio i  divi del grande schermo, quelli che di solito in operazioni del genere diventano aneddoti messi a corollario della storia.


Nella rivincita della parola sull’immagine Mank inverte per una volta l’ordine dei fattori lasciando spazio alle figure di contorno come sceneggiatori, impiegati, macchinisti, operatori di macchina, segretarie e cioè a tutte quelle persone abituate a lavorare nell’ombra e qui invece chiamate a completare la compagnia degli invitati al ballo.




La forma


A rimanere sontuosa come sempre e forse di più è la cornice dell’azione, di quello sfondo che nei film di Fincher diventa parte essenziale della composizione, come sottolinea non solo l’insisto ricorso a campi medi e lunghi atti a valorizzarne linee, geometrie e dècor ma anche in termini narrativi concorrendo nei dettagli degli elementi presenti in scena a suggestioni come quella che rimanda a Lo Sceicco Bianco di Federico Fellini i cui echi riecheggiano nella sequenza in cui Mankiewicz dopo aver scorto dalla feritoia di un cespuglio la presenza di un set cinematografico  ha modo di fare conoscenza con l’attrice che vi è impegnata e cioè di Marion Davis vestita di bianco ed elevata (come peraltro capitava ad Alberto Sordi)  a divinità di un proscenio di segno però opposto per il disincanto e la consapevolezza che i personaggi felliniani non avevano.


Se la forma di Mank  rimanda in parte al film in corso d’opera, in parte  a quelli dell’epoca in cui si svolge la vicenda (soprattutto nel bianco e nero della fotografia, piatta e pastosa come lo era quello dei film degli anni 40), Fincher non esplora lo spazio ma lo disegna, lo mette in posa come si capisce confrontando la diversità di scelte operate dal regista di Denver rispetto per esempio a quelle di Martin Scorsese in The Aviator nella sequenza all’interno del locale notturno in cui la mdp si chiude sui personaggi anziché investigare la superficie circostante con dolly, carrellate e aperture di campo come fa invece Scorsese.



Stasi più che azione


Simile per origini e sviluppi di carriera a Ridley Scott – al quale lo avvicinano non solo gli inizi legati all’arte della pittura da entrambi frequentata, e quindi una particolare predisposizione nella composizione delle scene ma anche una predilezione per la rilettura dei generi, il nostro ha saputo passare dalla sintesi stilistica degli inizi,  praticata per il tramite dei videoclip (peccato originale che anche a Fincher è stato fatto scontare) a un passo narrativo che di volta in volta è diventato sempre più meditativo e compassato soprattutto laddove – e nel caso parliamo di una vera e propria progressione in opere quali Seven, Zodiac, The Social Network e Gone Girl (in cui sono presenti addirittura inquadrature vuote)- c’era da aspettarsi un concentrato di azione e movimento.


Mank lo conferma dapprima trattando la storia di un uomo abituato a far prevalere le parole, enfatizzandone la tendenza mostrandolo sdraiato su un letto incapace di deambulare a causa di un incidente; in generale facendo della ragione l’arma principale con cui Mankiewicz si batte contro il sistema surrogando di fatto l’azione, vero e proprio epigono di una serie di personaggi – quelli creati da Fincher – destinati a fare i conti nel bene e nel male – con le capacità della propria mente anche dove – e per esempio in Fight Club – il corpo sembrerebbe prevalere.


D’altronde è per primo il regista a chiedersi la ragione ultima che muove il comportamento dei suoi protagonisti, come attesta la doppia sequenza che vede il personaggio di Ben Affleck nel già citato Gone Girl domandarsi, con chiara apprensione quale sia l’autentica matrice dei pensieri che abita la mente della sua sfuggente consorte interpretata da Rosamund Pike.   



Ambiguità


Un discorso, questo, che ci porta a un’altra caratteristica  della poetica fincheriana presente  non solo attraverso il personaggio di Mank ma anche con l’illusione artificiale della messinscena.



Da una parte infatti il protagonista dissacra le storture e i sotterfugi del sistema impegnato a conservarsi; dall’altra ricostruendone la mitologia con l’accuratezza della messinscena ne rafferma la centralità nell’immaginario comune.


Valga per tutte la conclusione del film in cui il personaggio di Gary Oldman denuncia la menzogna dei meccanismi del cinema che riconosco a Welles la condivisione di un riconoscimento (alla migliore sceneggiatura) non meritato avallandone l’inganno in nome della magia della settima arte.


Peraltro tutto il cinema di David Fincher fa dell’ambiguità uno dei suoi tratti principali, quello destinato dapprima ad alimentarne la narrazione e poi a legittimarie gli esiti  con sequenze finali come quella di Mank che ne registrano la effettiva continuità.


Carlo Cerofolini


(pubblicata su taxidrivers.it)

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