A ridosso della giornata mondiale contro la violenza sulle donne celebrata qualche giorno fa, "Just Like a Woman", il nuovo film di Rachid Bouchareb, potrebbe essere lo spot ideale per continuare a praticare un’idea di femminilità libera da condizionamenti fisici e psicologici. Il film infatti, ricalcando le orme di un prototipo come "Thelma e Louise" (1991), di cui per certi versi sembra una versione meno glamour, si sintonizza su un tema, quello dell'emancipazione femminile, ancora oggi ostaggio di un'incomunicabilità che, soprattutto nel cinema, fa da corredo alle nevrosi relative ali rapporto uomo/donna. In questo caso però, diversamente dalle eroine di Scott, la fuga di Marylin, moglie trascurata con una passione per la danza del ventre, e Mona, giovane araba disprezzata dalla suocera per la mancata gravidanza, più che ribellione è il frutto della disperazione, e di una presa di coscienza che ha bisogno di confrontarsi con l’esterno per giungere a compimento. Da qui la scelta di adottare una struttura "on the Road", da sempre specchio di metamorfosi interiori, e funzionale a fornire le aperture precedentemente negate dalla ristrettezza dei rispettivi schemi familiari. Sul piano pratico il regista Rachid Bouchareb trasforma la storia in un percorso di liberazione, in cui ogni singolo incontro - l'impresario concupiscente, la famiglia razzista e violenta, i nativi della riserva indiana - riesce a scolpire dei piccoli, grandi cambiamenti, e dove la geografia del territorio, con le stazioni di benzina sperdute nel nulla ed il cielo sagomato lungo il profilo dei Canyon finisce per corrispondere allo stato d'animo delle protagoniste.
Produttore impegnato (nella sua scuderia anche il prossimo ed atteso "Camile Claudel" di Bruno Dumont appena presentato alla berlinale) e regista di film attenti alla componente sociale (Uomini senza legge, 2010) Rachid Bouchareb riesce a far parlare le sue protagoniste con voce sincera. Ad aiutarlo la capacità di filmare gli ambienti con una realismo che esalta le emozioni di personaggi inseriti perfettamente nel paesaggio urbano e naturale, con campi medi e lunghi, volti a suggellare un privato, quello di Marylin e Mona, dialetticamente connesso con l'altrove che le circonda. Meno efficace risulta la traduzione dei contenuti (la maternità, l'incontro tra le culture) affidati a scene come quelle che ad esempio interessano il segmento in cui le due donne vengono confortate dalla comunità indiana, concepite all’insenga di un terzomondismo sempre bravo e comprensivo, e con una scrittura debole quando si tratta di delineare le psicologie dei caratteri di secondo piano. Cionondimeno "Just Like a Woman" mantiene intatta la sua empatia, grazie all'immedesimazione di due attrici, Sienna Miller e Golshifteh Farahani (About Elly, 2009) che esibiscono la loro bellezza all'interno di una performance di elegante sobrietà. Infine è curioso l’aneddotto che lega il film a Sienna Miller. “Just Like a Woman” è infatti anche il titolo di una canzone che Bob Dylan compose ispirandosi ad Edie Sedgwick, musa di Warhol ai tempi della Factory. Ma Edie Sedgwick rappresenta anche il primo ruolo da protagonista della Miller che la inepretò nel lungometraggio del 2006 intitolato "The Factory Girl".
giovedì, febbraio 28, 2013
Just Like a Woman
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recensioni
mercoledì, febbraio 27, 2013
Film in sala dal 28 Febbraio 2013
EDUCAZIONE SIBERIANA
di Gabriele Salvatores
con John Malkovich, Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson
Drammatico 110 min - ITA 2013
UPSIDE DOWN
di Juan Diego Solanas
con Kirsten Dunst, Jim Sturgess, Larry Day, Timothy Spall
Drammatico 107 min - CAN/FRA 2013
NON CI INDURRE IN TENTAZIONE
di Nicola Santi Amantini
con Lorenzo Berti
Drammatico 77 min - ITA 2013
TUTTI CONTRO TUTTI
di Rolando Ravello
con Rolando Ravello, Kasia Smutniak, Marco Giallini, Stefano Altieri
Commedia - ITA 2013
NON APRITE QUELLA PORTA
The Texas Chainsaw Massacre 3D
di John Luessenhop
con Scott Eastwood, Alexandra Daddario, Bill Moseley, Tania Raymonde
Horror 92 min - USA 2013
THE DOORS LIVE AT THE BOWL '68
Documentario/Musicale 91 min - USA 2013
di Gabriele Salvatores
con John Malkovich, Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson
Drammatico 110 min - ITA 2013
UPSIDE DOWN
di Juan Diego Solanas
con Kirsten Dunst, Jim Sturgess, Larry Day, Timothy Spall
Drammatico 107 min - CAN/FRA 2013
NON CI INDURRE IN TENTAZIONE
di Nicola Santi Amantini
con Lorenzo Berti
Drammatico 77 min - ITA 2013
TUTTI CONTRO TUTTI
di Rolando Ravello
con Rolando Ravello, Kasia Smutniak, Marco Giallini, Stefano Altieri
Commedia - ITA 2013
NON APRITE QUELLA PORTA
The Texas Chainsaw Massacre 3D
di John Luessenhop
con Scott Eastwood, Alexandra Daddario, Bill Moseley, Tania Raymonde
Horror 92 min - USA 2013
THE DOORS LIVE AT THE BOWL '68
Documentario/Musicale 91 min - USA 2013
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film in uscita 2013
martedì, febbraio 26, 2013
Oscar 2013: l'importanza di essere attori
Trovare qualcosa di non scontato che appartenga alla cerimonia degli Oscar non è facile, eppure nell'edizione appena conclusa due cose saltano all'occhio. La prima riguarda la preponderanza della componente attoriale, la seconda una certa ripetizione nell'assegnazione dei premi. In entrambi i casi a farla da padrone è Daniel Day Lewis, non solo vincitore di uno dei premi più ambiti, quello del miglior attore protagonista per il "suo" Lincoln, ma anche attore più premiato di sempre, con ben tre statuette. Ad affiancarlo Jennifer Lawrence (miglior attrice protagonista per "Il lato positivo"), una absolute beginners così come Anne Hathaway (Les Miserables), consacrate dall'Academy con un premio che è un investimento per la giovane età di entrambe le vincitrici. Tra gli uomini a proposito di deja vu c'è Chris Waltz (Django Unchained), con un bis realizzato sempre nella stessa categoria (migliore attore non protagonista) in cui aveva già trionfato per "Bastardi senza gloria", mentre Ben Afflek, regista ma anche attore vince; come miglior film per il suo "Argo", prodotto, tanto per confermare il trend della serata, dal collega, George Clooney, anche lui abituato a lavorare dietro e davanti alla macchina da presa. C'è da dire che al di là dei meriti di Affleck il suo è un come back che calza a pennello con i desideri del consesso, da sempre ansioso di proporre modelli (edificanti) di caduta e resurrezione che il buon Ben, capace di risalire la china dopo un passato doloroso, soddisfa pienamente. Un'altra doppietta la mette a segno Ang Lee, sdoganatore dell'amore omo in versione far west con "Brokeback Mountain" (Oscar 2006) trionfa a sorpresa con"Vita di Pi", spettacolare e virtuosa quanto basta per superare uno Spielberg in versione dimessa. Il resto appartiene alla storia.
Film telecomandati: Il nastro bianco
Film Telecomandati
Il Nastro Bianco (2009)
Regia: Michael Heneke
In onda martedi 26 febbraio alle ore 21.15 su Rai 5.
All'alba della prima guerra mondiale la vita monotona di un villaggio della Germania viene turbata da alcuni inquietanti avvenimenti: una corda tesa tra due alberi fa cadere da cavallo il medico del villaggio; una donna è vittima di uno strano incidente sul lavoro che le costa la vita; alcuni bambini vengono seviziati.
Il disturbante regista austriaco ci racconta la vita di una comunità chiusa, economicamente dipendente dal signorotto locale e pesantemente influenzata da una religione (protestante) esclusivamente utilizzata come forma di repressione dal pastore del villaggio.
A turbare l'apparente tranquillità dell'intero villaggio ci sono i bambini, unico granello di sabbia in un ingranaggio sociale ben oliato, pericoloso elemento di disturbo che va ferocemente represso con punizioni corporali e l'umiliazione, quest'ultima rappresentata da un nastro bianco da indossare in pubblico.
Haneke è geniale nel fornire di nomi solo i bambini, mentre gli adulti sono rappresentati solo con i loro titoli o ruoli che gli forniscono autorità: il barone, il pastore, il medico, il signor padre.
Ma repressione, violenza, umiliazioni e soffocamento delle pulsioni possono solo far germogliare il seme dell'odio nei giovanissimi.
I nastri bianchi che il pastore vuole erigere a simbolo di purezza diventeranno le stelle di davide che i bambini oppressi di Haneke, una volta divenuti adulti, appunteranno sul petto degli ebrei.
Molto bello esteticamente, con camera fissa ad incorniciare tante cartoline d'epoca, spazio delimitato e soffocante che vuole rappresentare il mondo chiuso e opprimente in cui si svolgono i fatti narrati.
Stampato in un bianco e nero gelido e avvolgente e senza musiche, il NASTRO BIANCO è l'incubazione del male secondo Haneke.
Disturbante, gelido, claustrofobico, imperdibile capolavoro.
Il Nastro Bianco (2009)
Regia: Michael Heneke
In onda martedi 26 febbraio alle ore 21.15 su Rai 5.
All'alba della prima guerra mondiale la vita monotona di un villaggio della Germania viene turbata da alcuni inquietanti avvenimenti: una corda tesa tra due alberi fa cadere da cavallo il medico del villaggio; una donna è vittima di uno strano incidente sul lavoro che le costa la vita; alcuni bambini vengono seviziati.
Il disturbante regista austriaco ci racconta la vita di una comunità chiusa, economicamente dipendente dal signorotto locale e pesantemente influenzata da una religione (protestante) esclusivamente utilizzata come forma di repressione dal pastore del villaggio.
A turbare l'apparente tranquillità dell'intero villaggio ci sono i bambini, unico granello di sabbia in un ingranaggio sociale ben oliato, pericoloso elemento di disturbo che va ferocemente represso con punizioni corporali e l'umiliazione, quest'ultima rappresentata da un nastro bianco da indossare in pubblico.
Haneke è geniale nel fornire di nomi solo i bambini, mentre gli adulti sono rappresentati solo con i loro titoli o ruoli che gli forniscono autorità: il barone, il pastore, il medico, il signor padre.
Ma repressione, violenza, umiliazioni e soffocamento delle pulsioni possono solo far germogliare il seme dell'odio nei giovanissimi.
I nastri bianchi che il pastore vuole erigere a simbolo di purezza diventeranno le stelle di davide che i bambini oppressi di Haneke, una volta divenuti adulti, appunteranno sul petto degli ebrei.
Molto bello esteticamente, con camera fissa ad incorniciare tante cartoline d'epoca, spazio delimitato e soffocante che vuole rappresentare il mondo chiuso e opprimente in cui si svolgono i fatti narrati.
Stampato in un bianco e nero gelido e avvolgente e senza musiche, il NASTRO BIANCO è l'incubazione del male secondo Haneke.
Disturbante, gelido, claustrofobico, imperdibile capolavoro.
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lunedì, febbraio 25, 2013
Educazione Siberiana
Educazione siberiana
di Gabriele Salvatores
con Arnas Fedarivicius, Vilius Tumalavicius, John Malkovich
Italia 2013
durata, 110
La vicenda collocata a cavallo del crollo dell'impero sovietico è ambientata tra una comunità criminale che vive in Siberia. Relegata ai margini della società, braccata da esercito e polizia, stremata dall'indigenza, quella di Kolima e Gagarin è un amicizia vissuta all'orizzonte di una legge non scritta che nonno Kuzja si preoccupa di trasmettere e di far rispettare senza alcuna eccezione. Una durezza mitigata da un'esistenza fatta di cose concrete, che si possono vedere ed a cui ci si può attaccare nel momento del bisogno, come i tatuaggi che Kolima ha imparato dal più bravo dei maestri, oppure il legame fraterno che unisce lui e l'amico alla banda di coetanei che si prepara ad entrare nel mondo degli adulti. Un senso d'appartenenza che entra in crisi quando Gagarin, uscito di prigione decide di agire a modo suo, mettendo in discussione gli insegnamenti ricevuti.
Sorretto dalla fonte letteraria "L'educazione sentimentale" di Salvatores non ci mette molto a far breccia sul pubblico con un empatia che si mette al riparo da eventuali riprovazioni, piazzando il carisma di un attore come John Malkovich a leggittimare la spietatezza di un personaggio come quello di nonno Kuzjia, "criminale onesto" che alla stregua di Robin Hood ruba ai ricchi per donare ai poveri; e poi rinforzando la dose con la freschezza fotogenica dei due giovani protagonisti impersonati dai volti sconosciutici di Arnas Fedarivicius e Vilius Tumalavicius. E poi c'è il gioco dei sentimenti, esercitato attraverso l'alternanza delle vicende che porteranno il film verso una conclusione inaspettatamente drammatica, con il confronto tra tradizione e modernità rappresentato dalla natura e dai comportamenti di Kolima e Gagarin. E' dalla loro contrapposizione, in cui c'e di mezzo anche una ragazza, che prende sostanza un filo narrativo che fa il verso al nostro presente, mettendo in scena la ricerca di senso di un' umanità all'interno di un mondo che, dopo il crollo delle ideologie connesso con la frantumazione dell'ex Unione sovietica, sembra non averne più. Il meccanismo però funziona solo in parte perchè la volontà di realizzare un prodotto popolare ed esportabile fa diventare tutto troppo semplice, con la struttura del libro, impoverita (la violenza anche efferata è quasi del tutto eliminata) e rimontata all'insegna del tutto esplicito, a detrimento di quella linea d'ombra che da sempre appartiene ai racconti di formazione a cui "Educazione Siberiana" appartiene. Luci ed ombre di un film che si avvale di un Salvatores stranamente sottotono nella gestione delle immagini, condizionate forse, dai limiti di un paesaggio interamente da ricostruire (girato a Vilnius, in Lituania, dove non esiste più un insegna scritta in cirillico) e quindi appiattite su inquadrature senza via d'uscita, tra primi piani e controcampi da passaggio televisivo. Un Salvatores in tono minore che non mancherà di trovare il suo pubblico ma lascerà delusi i suoi fan più affezionati.
di Gabriele Salvatores
con Arnas Fedarivicius, Vilius Tumalavicius, John Malkovich
Italia 2013
durata, 110
Se lo spazio della visione cinematografica è quello che si trova all'interno dello schermo, diventa sempre più importante nella valutazione di un film ciò che ne sta fuori. E qui non parliamo di speculazioni e di concetti troppo astratti - legati al metalinguaggio - ma piuttosto di tutti quegli aspetti che si innescano e fanno parte di un processo produttivo diventato, con la crisi del tempo presente, determinante per l'esistenza del cinema stesso. Il nuovo film di Salvatores, "Educazione Siberiana" potrebbe esserne un esempio, perchè al di là dei risultati riscontrabili sul campo (messinscena, performance attoriale, etc) a farla da padrone, per l'influenza esercitata sulle singole componenti, è una convergenza di interessi eterogenei e sovrapposti. Al centro di tutto la necessità di far tornare i conti, e quindi di ampliare il bacino delle vendite allargandole oltre i confini nazionali. Una strada obbligatoria che Rai Cinema aveva già intrapreso con "Il cecchino" di Michele Placido (2013), coprodotto insieme ai francesi, e qui ribadita all'ennesima potenza dal mancato impiego di attori nostrani e da una location interamente straniera. Poi la tendenza di un regista, Salvatores, abituato a ricercare soggetti sempre diversi, in grado di stimolare una fantasia che ha bisogno di cambiare. Infine uno scrittore, Nicolaij Lilin autore di un romanzo d'altri tempi, in cui a contare non è la confezione ma il contenuto della storia.
La vicenda collocata a cavallo del crollo dell'impero sovietico è ambientata tra una comunità criminale che vive in Siberia. Relegata ai margini della società, braccata da esercito e polizia, stremata dall'indigenza, quella di Kolima e Gagarin è un amicizia vissuta all'orizzonte di una legge non scritta che nonno Kuzja si preoccupa di trasmettere e di far rispettare senza alcuna eccezione. Una durezza mitigata da un'esistenza fatta di cose concrete, che si possono vedere ed a cui ci si può attaccare nel momento del bisogno, come i tatuaggi che Kolima ha imparato dal più bravo dei maestri, oppure il legame fraterno che unisce lui e l'amico alla banda di coetanei che si prepara ad entrare nel mondo degli adulti. Un senso d'appartenenza che entra in crisi quando Gagarin, uscito di prigione decide di agire a modo suo, mettendo in discussione gli insegnamenti ricevuti.
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sabato, febbraio 23, 2013
Educazione Siberiana: conferenza stampa
Educazione Siberiana, un film a dimensione europea
Incontrare Gabriele Salvatores a poci giorni dalla notte degli Oscar ha il sapore d'amarcord, un pò perché nel 1991 il suo “Mediterraneo” portò in Italia la famosa statuetta, ma anche per il ricordo di una stagione a suo tempo disprezzata ma sicuramente generosa in termini di incassi nei confronti del nostro cinema. Ed è proprio con l’intento di ritrovare il tempo perduto, allargardo il bacino degli utenti ad una dimensione non solo casalinga ma anche europea che Rai Cinema ha deciso di finanziare un’operazione come quella di “Educazione Siberiana”, definita dallo stesso regista, rischiosa, non solo in termini di investimento finanziario (circa 9 milioni di euro) ma anche di contenuti, se è vero che il libro di Lilin nasce da un’ esperienza autobiografica legata ad un paese, la Transinstria, ai più sconosciuta e difficile da collocare persino con l’aiuto dell’atlante geografico. Ma sono proprio i dettagli dell’aspetto produttivo, con mentalità da studios hollywoodiano a farla da padrone nella conferenza stampa alla quale abbiamo assistito. Si parla molto di “screening test”, effettuati addirittura a Londra e capaci di far riportare tutti sul set per rigirare un finale poco convincente, e poi, dell’importanza di concepire un prodotto in grado di essere capito, e quindi venduto, ad un pubblico trasversale, italiano come europeo, e con un attenzione particolare agli spettatori più giovani, che, e lo diciamo noi, sono quelli che determinano la sorte degli incassi. In questa direzione è andata la scrittura di Lilin, il quale, di fronte alle domande sugli avvenimenti storici in cui si svolge il romanzo, dichiara di aver voluto svincolare il libro dalle necessità storiche e filologiche per renderlo applicabile all’esperienza di ogni lettore. “Io non volevo fare un’opera storica ma raccontare uomini e donne che ho visto durante il periodo a cui faccio riferimento nel mio libro” dichiara ed ancora “ Educazione Siberiana è una storia libera ed universale, che potrebbe essere ambientata anche in medioriente dove abitano molti dei miei amici". Sulla stessa lunghezza d'onda gli sceneggiatori Rulli e Petraglia (“La meglio Gioventù”, 2003 “Romanzo di una strage”, 2012) che nella riduzione del libro hanno dato meno peso al realismo dello sfondo politico e sociale, per privilegiare la ricerca di senso operata da due amici, Kolia e Gagarin, che si ritroveranno divisi dai rispettivi ideali esistenziali.
Un pò intimiditi da questi discorsi sui massimi sistemi i tre giovanissimi attori (Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson) si dichiarano felici di aver lavorato con un regista che non conoscevano ma che hanno imparato ad apprezzare, mentre Malkovich gentile ma un po’ distante si limita al minimo sindacale con risposte di routine. La conclusione spetta però a Salvatores, che si dice dispiaciuto per una contemporaneità senza maestri (il riferimento va nonno Kuzya, il cattivo maestro interpretato da Malcovich), capace di caricarsi sulle spalle la responsabilità di educare le nuove generazioni, per poi affermare che "Educazione Siberiana il film più bello che io abbia mai fatto”. Una benedizione che è di buon auspicio per l'uscita del film, fissata per 27 gennaio con 350 mila copie.
Incontrare Gabriele Salvatores a poci giorni dalla notte degli Oscar ha il sapore d'amarcord, un pò perché nel 1991 il suo “Mediterraneo” portò in Italia la famosa statuetta, ma anche per il ricordo di una stagione a suo tempo disprezzata ma sicuramente generosa in termini di incassi nei confronti del nostro cinema. Ed è proprio con l’intento di ritrovare il tempo perduto, allargardo il bacino degli utenti ad una dimensione non solo casalinga ma anche europea che Rai Cinema ha deciso di finanziare un’operazione come quella di “Educazione Siberiana”, definita dallo stesso regista, rischiosa, non solo in termini di investimento finanziario (circa 9 milioni di euro) ma anche di contenuti, se è vero che il libro di Lilin nasce da un’ esperienza autobiografica legata ad un paese, la Transinstria, ai più sconosciuta e difficile da collocare persino con l’aiuto dell’atlante geografico. Ma sono proprio i dettagli dell’aspetto produttivo, con mentalità da studios hollywoodiano a farla da padrone nella conferenza stampa alla quale abbiamo assistito. Si parla molto di “screening test”, effettuati addirittura a Londra e capaci di far riportare tutti sul set per rigirare un finale poco convincente, e poi, dell’importanza di concepire un prodotto in grado di essere capito, e quindi venduto, ad un pubblico trasversale, italiano come europeo, e con un attenzione particolare agli spettatori più giovani, che, e lo diciamo noi, sono quelli che determinano la sorte degli incassi. In questa direzione è andata la scrittura di Lilin, il quale, di fronte alle domande sugli avvenimenti storici in cui si svolge il romanzo, dichiara di aver voluto svincolare il libro dalle necessità storiche e filologiche per renderlo applicabile all’esperienza di ogni lettore. “Io non volevo fare un’opera storica ma raccontare uomini e donne che ho visto durante il periodo a cui faccio riferimento nel mio libro” dichiara ed ancora “ Educazione Siberiana è una storia libera ed universale, che potrebbe essere ambientata anche in medioriente dove abitano molti dei miei amici". Sulla stessa lunghezza d'onda gli sceneggiatori Rulli e Petraglia (“La meglio Gioventù”, 2003 “Romanzo di una strage”, 2012) che nella riduzione del libro hanno dato meno peso al realismo dello sfondo politico e sociale, per privilegiare la ricerca di senso operata da due amici, Kolia e Gagarin, che si ritroveranno divisi dai rispettivi ideali esistenziali.
Un pò intimiditi da questi discorsi sui massimi sistemi i tre giovanissimi attori (Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson) si dichiarano felici di aver lavorato con un regista che non conoscevano ma che hanno imparato ad apprezzare, mentre Malkovich gentile ma un po’ distante si limita al minimo sindacale con risposte di routine. La conclusione spetta però a Salvatores, che si dice dispiaciuto per una contemporaneità senza maestri (il riferimento va nonno Kuzya, il cattivo maestro interpretato da Malcovich), capace di caricarsi sulle spalle la responsabilità di educare le nuove generazioni, per poi affermare che "Educazione Siberiana il film più bello che io abbia mai fatto”. Una benedizione che è di buon auspicio per l'uscita del film, fissata per 27 gennaio con 350 mila copie.
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conferenza stampa
venerdì, febbraio 22, 2013
Die hard. Un buon giorno per morire - A good day to die hard
di J. MOORE
con B.Willis, J.Courtney, C.Hauser, S.Koch
USA 2013 - 97'
by TheFisherKing
Neppure e' più possibile utilizzare la vecchia guasconata riguardo "the return of Bruno", visto che Bruno/Bruce Willis non se ne e' mai andato ma, anzi, con gli anni, ha sempre più diversificato i suoi impegni di superstar hollywoodiana ritagliandosi tutta una serie di apparizioni meno ovvie, chiaroscurate, a volte dolenti, spesso in direzione opposta a quegli stilemi che ne hanno decretato il successo planetario e il sedimentarsi di un'impronta duratura nella memoria collettiva.
Con questo quinto episodio delle avventure rutilanti e semi-fumettistiche dello sbirro John McClane e' un po' come tornare nel giardino di casa dopo una discreta parentesi trascorsa altrove, anche se l'azione - tonitruante e coloratissima ma paradossalmente pressoché inerte - si svolge perlopiu a Mosca. Dal quarto di secolo che ci separa da "Trappola di cristallo" ("Die hard", 1988, di J. McTiernan), passando per le stazioni successive, a dire "58 minuti per morire" ("Die hard 2", 1990, di R. Harlin); "Die hard: duri a morire" ("Die hard: with a vengeance", 1995, ancora di McTiernan), sino al più recente "Die hard. Vivere o morire" ("Live free or die hard", 2007, di L. Wiseman), il carattere di Willis ha perduto via via - a parte i capelli - le connotazioni realistiche o verosimili che ancora, per quanto tenuemente, resistevano nelle prime pellicole (la prima in particolar modo) e la agganciavano al sotto filone poliziesco con venature catastrofiche (pensiamo all'unita di luogo, al microcosmo concentrazionario del grattacielo Nagatomo), per assumere quella sorta d'imponderabilità punteggiata di sarcasmo e capitomboli, quell'astrattezza a riparo da psicologie ingombranti o snodi irrisolti sempre in primo piano, che solo i veri eroi - in specie quelli del cinema - possono permettersi perché, quando l'immedesimazione calza, come nel caso di Willis e il corpo aderisce senza sforzo alla maschera, il vissuto interno del protagonista diventa tanto più credibile e per certi aspetti drammatico quanto meno e' mostrato o posto al centro della discussione.
Stavolta, pero' - e la sua discreta parte di (de)merito se la porta impressa la mano quadra di un regista come John Moore ("Behind enemy lines", "Max Payne") - il meccanismo e' talmente poco oliato da incepparsi quasi subito nel suo stolido sbattere sempre sugli stessi spigoli; la storia (benché resta implicita la sua importanza marginale in questo tipo di operazioni seriali) eccessivamente stracca e avara d'idee; i vuoti e le ovvietà grossi come le voragini aperte dagli sconquassi degli inseguimenti sulle intasatissime arterie moscovite o come gli squarci praticati negli edifici dai furibondi mitragliamenti elicotteristici, che a rimetterci e' proprio l'eroe, il ben conservato cinquantasettenne Willis, già poco convinto e un tanto sfiduciato di suo e qui chiamato a misurarsi con cicliche acrobazie un tanto al chilo ma soprattutto orfano di quella leggerezza e di quella autoironia che si erano imposte come uno dei contrappunti vincenti dell'intera saga.
Con felice continuità - per le schiere dei fan più entusiasti - o con un certo sospetto di industria che tenta di mascherare la ruggine - per i detrattori - "Bruno" si poteva in ogni caso aggiungere alla manipolo di paladini tutto ordine/giustizia/libertà che in questo scorcio di 2013 hanno prolungato l'"eterno ritorno" degli anni 80. Assieme ai "mercenari" di Stallone, al Jack Reacher solitario di Tom Cruise e al coriaceo sceriffo di frontiera incarnato da Schwarzenegger, Willis/McClane avrebbe partecipato di buon grado allo sforzo di tenere ferme le lancette dell'orologio biologico-storico-cinematografico. Solo che tra i quattro e' stato quello a cui hanno servito le carte peggiori: riesumargli attorno le figure di due avidi intrallazzatori ex amici, ora in spietata concorrenza per l'accaparramento di scorte di uranio depotenziato addirittura proveniente dagli stock dei reattori di Chernobyl per essere reindirizzate nel più remunerativo mercato delle armi illegali, e' un escamotage piuttosto debole, bene che va a rischio di tritume. Se su tale debolezza di fondo s'innesta, poi, come poco più che un riempitivo, l'esile linea narrativa a base di fraintendimenti e battibecchi familiari (utili ad introdurre la nuova spalla, John jr, detto Jack - Jai Courtney, già visto nei panni del cattivo proprio in "Jack Reacher" -) e' chiaro che l'insieme ne risente e il semplice accostamento di questo piano all'inerzia senza vera dinamica delle fin troppo protratte scene d'azione, riduce il ritmo interno del film ad una cadenza monotona quanto priva di alternative praticabili.
Se Willis e' e resta "l'ultimo boy-scout", insomma, e' giusto pretendere che gli venga offerta una missione degna di lui e di questo nome.
con B.Willis, J.Courtney, C.Hauser, S.Koch
USA 2013 - 97'
by TheFisherKing
Neppure e' più possibile utilizzare la vecchia guasconata riguardo "the return of Bruno", visto che Bruno/Bruce Willis non se ne e' mai andato ma, anzi, con gli anni, ha sempre più diversificato i suoi impegni di superstar hollywoodiana ritagliandosi tutta una serie di apparizioni meno ovvie, chiaroscurate, a volte dolenti, spesso in direzione opposta a quegli stilemi che ne hanno decretato il successo planetario e il sedimentarsi di un'impronta duratura nella memoria collettiva.
Con questo quinto episodio delle avventure rutilanti e semi-fumettistiche dello sbirro John McClane e' un po' come tornare nel giardino di casa dopo una discreta parentesi trascorsa altrove, anche se l'azione - tonitruante e coloratissima ma paradossalmente pressoché inerte - si svolge perlopiu a Mosca. Dal quarto di secolo che ci separa da "Trappola di cristallo" ("Die hard", 1988, di J. McTiernan), passando per le stazioni successive, a dire "58 minuti per morire" ("Die hard 2", 1990, di R. Harlin); "Die hard: duri a morire" ("Die hard: with a vengeance", 1995, ancora di McTiernan), sino al più recente "Die hard. Vivere o morire" ("Live free or die hard", 2007, di L. Wiseman), il carattere di Willis ha perduto via via - a parte i capelli - le connotazioni realistiche o verosimili che ancora, per quanto tenuemente, resistevano nelle prime pellicole (la prima in particolar modo) e la agganciavano al sotto filone poliziesco con venature catastrofiche (pensiamo all'unita di luogo, al microcosmo concentrazionario del grattacielo Nagatomo), per assumere quella sorta d'imponderabilità punteggiata di sarcasmo e capitomboli, quell'astrattezza a riparo da psicologie ingombranti o snodi irrisolti sempre in primo piano, che solo i veri eroi - in specie quelli del cinema - possono permettersi perché, quando l'immedesimazione calza, come nel caso di Willis e il corpo aderisce senza sforzo alla maschera, il vissuto interno del protagonista diventa tanto più credibile e per certi aspetti drammatico quanto meno e' mostrato o posto al centro della discussione.
Stavolta, pero' - e la sua discreta parte di (de)merito se la porta impressa la mano quadra di un regista come John Moore ("Behind enemy lines", "Max Payne") - il meccanismo e' talmente poco oliato da incepparsi quasi subito nel suo stolido sbattere sempre sugli stessi spigoli; la storia (benché resta implicita la sua importanza marginale in questo tipo di operazioni seriali) eccessivamente stracca e avara d'idee; i vuoti e le ovvietà grossi come le voragini aperte dagli sconquassi degli inseguimenti sulle intasatissime arterie moscovite o come gli squarci praticati negli edifici dai furibondi mitragliamenti elicotteristici, che a rimetterci e' proprio l'eroe, il ben conservato cinquantasettenne Willis, già poco convinto e un tanto sfiduciato di suo e qui chiamato a misurarsi con cicliche acrobazie un tanto al chilo ma soprattutto orfano di quella leggerezza e di quella autoironia che si erano imposte come uno dei contrappunti vincenti dell'intera saga.
Con felice continuità - per le schiere dei fan più entusiasti - o con un certo sospetto di industria che tenta di mascherare la ruggine - per i detrattori - "Bruno" si poteva in ogni caso aggiungere alla manipolo di paladini tutto ordine/giustizia/libertà che in questo scorcio di 2013 hanno prolungato l'"eterno ritorno" degli anni 80. Assieme ai "mercenari" di Stallone, al Jack Reacher solitario di Tom Cruise e al coriaceo sceriffo di frontiera incarnato da Schwarzenegger, Willis/McClane avrebbe partecipato di buon grado allo sforzo di tenere ferme le lancette dell'orologio biologico-storico-cinematografico. Solo che tra i quattro e' stato quello a cui hanno servito le carte peggiori: riesumargli attorno le figure di due avidi intrallazzatori ex amici, ora in spietata concorrenza per l'accaparramento di scorte di uranio depotenziato addirittura proveniente dagli stock dei reattori di Chernobyl per essere reindirizzate nel più remunerativo mercato delle armi illegali, e' un escamotage piuttosto debole, bene che va a rischio di tritume. Se su tale debolezza di fondo s'innesta, poi, come poco più che un riempitivo, l'esile linea narrativa a base di fraintendimenti e battibecchi familiari (utili ad introdurre la nuova spalla, John jr, detto Jack - Jai Courtney, già visto nei panni del cattivo proprio in "Jack Reacher" -) e' chiaro che l'insieme ne risente e il semplice accostamento di questo piano all'inerzia senza vera dinamica delle fin troppo protratte scene d'azione, riduce il ritmo interno del film ad una cadenza monotona quanto priva di alternative praticabili.
Se Willis e' e resta "l'ultimo boy-scout", insomma, e' giusto pretendere che gli venga offerta una missione degna di lui e di questo nome.
TFK
Note su Zero Dark Thirty
di K. BIGELOW
by TheFisherKing
Il buio ("dark") e' il cuore nero di questo film di K. Bigelow. Il buio del raziocinio, innanzitutto, che lasciandosi sommergere dal desiderio di verità e di vendetta - la cattura e l'eliminazione di Osama bin Laden - produce due follie opposte che allontanano la verità e riducono la vendetta ad una perversione tra sadici e masochisti: l'uso sistematico e, alla luce dei fatti, poco remunerativo della tortura, con annessa menzogna in diretta di un Presidente (Obama in un "60 minutes" del 2006 afferma che "l'America non tortura") e una copia fuori controllo di calcoli probabilistici, analisi, valutazioni, azzardi, triangolazioni, sotto forma di centinaia di dossier, file, fotografie, dvd, intercettazioni e delazioni, corruzioni (una Lamborghini gialla nuova di zecca sposta il limite ancora un po' più in la')....
La "sfacchinata notturna" del titolo e' solo l'epilogo, tutto sommato titolare di una sua coerenza, di un gigantesco meccanismo che ingoia persone, anni, miliardi di dollari e nonostante protocolli, procedure, standard sempre più sofisticati, sembra muoversi solo in virtù di una capillarità pervasiva e inerziale. Il buio che stagna al fondo della macchina governativa, dice la Bigelow, prolifera sulle incongruenze e le contraddizioni di una realtà talmente composita e lontana dal "mood" medio occidentale (Afghanistan, Pakistan, Iraq) che la sola pretesa di esaurirla in una visione d'assieme - per non parlare della sempiterna e malamente dissimulata ossessione di controllarla - appare demenziale. Eppure, più e' demenziale, più prolifera. All'interno di un marchingegno tale, l'uomo scompare o, che e' lo stesso, diventa "analista", "supervisore", "single tasker", "torturatore": in ogni caso singolarità isolata che deve guardarsi in special modo proprio dalla struttura che lo dirige, dalle sue omissioni, i suoi sistematici non-detti, i suoi opportunismi solo in superficie lungimiranti.
Volenti o nolenti, la società americana e' il principale laboratorio - anche psicologico - da cui fuoriescono le linee guida degli scenari che verranno e il cinema USA e' da sempre uno dei più acuti testimoni di questi tentativi di trasformazione o di scivolamento su imprevedibili chine. L'impatto della tecnologia, il furore impietoso del denaro, l'accelerazione e conseguente volatilità dei rapporti, la sostanziale solitudine di massa, una qual stanchezza (di un mondo, l'Occidente, di una cultura, di un certo modo di vivere - l'inquietante intercambiabilità tra necessita' e aspirazioni, l'eterogenesi dei fini -) sono alcuni temi centrali della modernità che negli ultimi anni hanno incrociato gli interessi di una regista come la Bigelow (anche in ragione di traversie produttive dopo lo scarso seguito avuto da "K-19", 2002, che hanno accelerato il progressivo allontanamento dalle logiche e dai dollari di Hollywood per approdare, in accordo col sodalizio umano e professionale, ora concluso, con Mark Boal, alla Annapurna pictures di Megan Ellison), caratterizzando invece da tempo l'indagine di un primo della classe come Michael Mann.
I due autori, seppur specularmente, hanno in comune l'aderenza stretta al dato di realtà e variazioni stilistiche che, al netto di ovvie differenze, sono riconducibili ad una matrice che possiamo dire gemella anche se generatrice di esiti autonomi e originali. Ambedue, infatti, a contatto con una materia così incandescente quale e' la contemporaneità, hanno elaborato una sorta di "estetica in divenire", una corrente continua di immagini e parole, di rimandi, di spazi e situazioni tipiche che s'inseguono da un film all'altro: in Mann, "Heat", 1995, "Insider", 1999, "Collateral", 2004, "Miami Vice", 2006, per dire, sembrano un solo grande affresco sull'intelligenza e la sagacia di singoli che sfidano il caso o entità più grandi di loro; che spezzano o ridefiniscono i legami familiari e sentimentali; che utilizzano la tecnologia ma non vi si consegnano; così come per la Bigelow, "Strange days", 1995, "The hurt locker", 2008 e appunto "ZDT", 2012 annodano inestricabilmente solitudine, alienazione, distorsione dei concetti di Bene e di Male, fatica o impossibilita' di uscire dall'ambito del ruolo che ci siamo/ci hanno disegnati/o addosso.
Se pero' per Mann l'esigenza dell'imporsi o del ristabilire la "verità" non e' così stringente sin dai tempi di "Strade violente"/"Thief" (1981) - in cui un James Caan parco di parole ma lucido si avvia scientemente verso la propria fine e il tavolo decisivo su cui si gioca la partita e' semmai quello di sfidarlo a viso aperto il caos, per tentare di imporre le condizioni che rendano possibile la sopravvivenza di uno scambio umano anche se conflittuale (la famiglia nelle sue più diverse declinazioni; gli amici; i sodali; il clan; il corpo di polizia; la gerarchia criminale spietata ma diretta) e per far ciò, unendo avanguardia tecnologica e dilatazione dei tempi, si avvale di uno stile smagliante e solenne sempre in miracoloso equilibrio tra sperimentazione e manierismo - per la Bigelow l'insistenza con cui i suoi caratteri solitari battono su un tasto per rimarcare una certa "verità", la loro (l'inconsolabilita ' autolesionistica di un amore infranto per il Lenny Nero di "Strange days"; le dosi massicce di eccitazione a surrogato di una autentica pienezza vitale per il serg. artificiere William James in "The hurt locker"; la maniacalita' al limite della paranoia della Maya di "ZDT") conferisce al suo fluire un aspetto più "granuloso", spezzettato, inquieto, di continuo portato alla frammentazione del punto di vista e quindi alla moltiplicazione delle incertezze, delle tensioni che percorrono, praticamente da cima a fondo, questi film.
Su un binario si trova allora a rotolare la scia del romanticismo sgargiante quanto pervaso di un suo testardo calore ("heat"), di Mann: padronanza delle tecniche, spolvero tecnologico e inesausto rilancio sugli uomini in un mondo che tende sempre più a negarli. Sull'altro, incalza la processione delle solitudini senza remissione della Bigelow (tranne, forse, Lenny Nero ma in extremis) e con loro, il freddo e il buio ("dark") di una condizione immodificabile ("Ho visto troppi maschi nudi. Devo tornare a fare qualcosa di normale per un po'", dice J. Clark/Dan, riflettendo sui trattamenti che ha inflitto ai prigionieri che gli sono stati affidati. E, di fatto, ci torna negli Stati Uniti ma per fare carriera tra Langley e Washington. Così come si ripresenterà ancora sulla scena delle operazioni. Maya stessa si apostrofa come "Non sono il tipo che scopa" e quando il capo della CIA J. Gandolfini/L. Panetta le chiede "Cos'altro ha fatto per noi, per l'Agenzia ?", lei risponde "Niente, signore. Niente di niente", tradendo nello sguardo uno sgomento e un disgusto che va ben al di la' del tran tran professionale). Il passo di una condizione esistenziale simile e' scandito da uno stile caratterizzato da soggettive strettissime in alternananza e sovente con camera a mano; da un montaggio serrato a caricare le attese; da dialoghi spicci e tecnici. In generale, il tono restituisce impassibile come su tutta l'enorme faccenda mediorientale aleggi oramai più che altro un cupo senso di stremata efficienza. Tirare ancora i fili per far emergere la verità (le omertà, i patti inconfessabili, tutto quello che si giustifica di fronte alla "sicurezza nazionale") davvero non conta più, a questo punto. Finire e sparire, allora. Magari nel ventre vuoto di un cargo. Soli e al buio, in ogni caso.
(Curiosità a potenziale alto tasso di buio: ad oggi non sono ancora state del tutto chiarite le circostanze relative all'"incidente" occorso all'elicottero "Chinook" il 07 08 2011 che ha, pare, decimato proprio il gruppo di Navy Seals protagonista dell'irruzione ad Abbottabad poco più di tre mesi prima).
by TheFisherKing
Il buio ("dark") e' il cuore nero di questo film di K. Bigelow. Il buio del raziocinio, innanzitutto, che lasciandosi sommergere dal desiderio di verità e di vendetta - la cattura e l'eliminazione di Osama bin Laden - produce due follie opposte che allontanano la verità e riducono la vendetta ad una perversione tra sadici e masochisti: l'uso sistematico e, alla luce dei fatti, poco remunerativo della tortura, con annessa menzogna in diretta di un Presidente (Obama in un "60 minutes" del 2006 afferma che "l'America non tortura") e una copia fuori controllo di calcoli probabilistici, analisi, valutazioni, azzardi, triangolazioni, sotto forma di centinaia di dossier, file, fotografie, dvd, intercettazioni e delazioni, corruzioni (una Lamborghini gialla nuova di zecca sposta il limite ancora un po' più in la')....
La "sfacchinata notturna" del titolo e' solo l'epilogo, tutto sommato titolare di una sua coerenza, di un gigantesco meccanismo che ingoia persone, anni, miliardi di dollari e nonostante protocolli, procedure, standard sempre più sofisticati, sembra muoversi solo in virtù di una capillarità pervasiva e inerziale. Il buio che stagna al fondo della macchina governativa, dice la Bigelow, prolifera sulle incongruenze e le contraddizioni di una realtà talmente composita e lontana dal "mood" medio occidentale (Afghanistan, Pakistan, Iraq) che la sola pretesa di esaurirla in una visione d'assieme - per non parlare della sempiterna e malamente dissimulata ossessione di controllarla - appare demenziale. Eppure, più e' demenziale, più prolifera. All'interno di un marchingegno tale, l'uomo scompare o, che e' lo stesso, diventa "analista", "supervisore", "single tasker", "torturatore": in ogni caso singolarità isolata che deve guardarsi in special modo proprio dalla struttura che lo dirige, dalle sue omissioni, i suoi sistematici non-detti, i suoi opportunismi solo in superficie lungimiranti.
Volenti o nolenti, la società americana e' il principale laboratorio - anche psicologico - da cui fuoriescono le linee guida degli scenari che verranno e il cinema USA e' da sempre uno dei più acuti testimoni di questi tentativi di trasformazione o di scivolamento su imprevedibili chine. L'impatto della tecnologia, il furore impietoso del denaro, l'accelerazione e conseguente volatilità dei rapporti, la sostanziale solitudine di massa, una qual stanchezza (di un mondo, l'Occidente, di una cultura, di un certo modo di vivere - l'inquietante intercambiabilità tra necessita' e aspirazioni, l'eterogenesi dei fini -) sono alcuni temi centrali della modernità che negli ultimi anni hanno incrociato gli interessi di una regista come la Bigelow (anche in ragione di traversie produttive dopo lo scarso seguito avuto da "K-19", 2002, che hanno accelerato il progressivo allontanamento dalle logiche e dai dollari di Hollywood per approdare, in accordo col sodalizio umano e professionale, ora concluso, con Mark Boal, alla Annapurna pictures di Megan Ellison), caratterizzando invece da tempo l'indagine di un primo della classe come Michael Mann.
I due autori, seppur specularmente, hanno in comune l'aderenza stretta al dato di realtà e variazioni stilistiche che, al netto di ovvie differenze, sono riconducibili ad una matrice che possiamo dire gemella anche se generatrice di esiti autonomi e originali. Ambedue, infatti, a contatto con una materia così incandescente quale e' la contemporaneità, hanno elaborato una sorta di "estetica in divenire", una corrente continua di immagini e parole, di rimandi, di spazi e situazioni tipiche che s'inseguono da un film all'altro: in Mann, "Heat", 1995, "Insider", 1999, "Collateral", 2004, "Miami Vice", 2006, per dire, sembrano un solo grande affresco sull'intelligenza e la sagacia di singoli che sfidano il caso o entità più grandi di loro; che spezzano o ridefiniscono i legami familiari e sentimentali; che utilizzano la tecnologia ma non vi si consegnano; così come per la Bigelow, "Strange days", 1995, "The hurt locker", 2008 e appunto "ZDT", 2012 annodano inestricabilmente solitudine, alienazione, distorsione dei concetti di Bene e di Male, fatica o impossibilita' di uscire dall'ambito del ruolo che ci siamo/ci hanno disegnati/o addosso.
Se pero' per Mann l'esigenza dell'imporsi o del ristabilire la "verità" non e' così stringente sin dai tempi di "Strade violente"/"Thief" (1981) - in cui un James Caan parco di parole ma lucido si avvia scientemente verso la propria fine e il tavolo decisivo su cui si gioca la partita e' semmai quello di sfidarlo a viso aperto il caos, per tentare di imporre le condizioni che rendano possibile la sopravvivenza di uno scambio umano anche se conflittuale (la famiglia nelle sue più diverse declinazioni; gli amici; i sodali; il clan; il corpo di polizia; la gerarchia criminale spietata ma diretta) e per far ciò, unendo avanguardia tecnologica e dilatazione dei tempi, si avvale di uno stile smagliante e solenne sempre in miracoloso equilibrio tra sperimentazione e manierismo - per la Bigelow l'insistenza con cui i suoi caratteri solitari battono su un tasto per rimarcare una certa "verità", la loro (l'inconsolabilita ' autolesionistica di un amore infranto per il Lenny Nero di "Strange days"; le dosi massicce di eccitazione a surrogato di una autentica pienezza vitale per il serg. artificiere William James in "The hurt locker"; la maniacalita' al limite della paranoia della Maya di "ZDT") conferisce al suo fluire un aspetto più "granuloso", spezzettato, inquieto, di continuo portato alla frammentazione del punto di vista e quindi alla moltiplicazione delle incertezze, delle tensioni che percorrono, praticamente da cima a fondo, questi film.
Su un binario si trova allora a rotolare la scia del romanticismo sgargiante quanto pervaso di un suo testardo calore ("heat"), di Mann: padronanza delle tecniche, spolvero tecnologico e inesausto rilancio sugli uomini in un mondo che tende sempre più a negarli. Sull'altro, incalza la processione delle solitudini senza remissione della Bigelow (tranne, forse, Lenny Nero ma in extremis) e con loro, il freddo e il buio ("dark") di una condizione immodificabile ("Ho visto troppi maschi nudi. Devo tornare a fare qualcosa di normale per un po'", dice J. Clark/Dan, riflettendo sui trattamenti che ha inflitto ai prigionieri che gli sono stati affidati. E, di fatto, ci torna negli Stati Uniti ma per fare carriera tra Langley e Washington. Così come si ripresenterà ancora sulla scena delle operazioni. Maya stessa si apostrofa come "Non sono il tipo che scopa" e quando il capo della CIA J. Gandolfini/L. Panetta le chiede "Cos'altro ha fatto per noi, per l'Agenzia ?", lei risponde "Niente, signore. Niente di niente", tradendo nello sguardo uno sgomento e un disgusto che va ben al di la' del tran tran professionale). Il passo di una condizione esistenziale simile e' scandito da uno stile caratterizzato da soggettive strettissime in alternananza e sovente con camera a mano; da un montaggio serrato a caricare le attese; da dialoghi spicci e tecnici. In generale, il tono restituisce impassibile come su tutta l'enorme faccenda mediorientale aleggi oramai più che altro un cupo senso di stremata efficienza. Tirare ancora i fili per far emergere la verità (le omertà, i patti inconfessabili, tutto quello che si giustifica di fronte alla "sicurezza nazionale") davvero non conta più, a questo punto. Finire e sparire, allora. Magari nel ventre vuoto di un cargo. Soli e al buio, in ogni caso.
(Curiosità a potenziale alto tasso di buio: ad oggi non sono ancora state del tutto chiarite le circostanze relative all'"incidente" occorso all'elicottero "Chinook" il 07 08 2011 che ha, pare, decimato proprio il gruppo di Navy Seals protagonista dell'irruzione ad Abbottabad poco più di tre mesi prima).
TFK
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giovedì, febbraio 21, 2013
The Summit: anteprima romana al Nuovo Cinema Palazzo
Per informazioni http://www.nuovocinemapalazzo.it/
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Eventi Roma
NOI SIAMO INFINITO
The Perks of being a Wallflower - USA 2012
Regia: Steven Chbosky
cast: Emma Watson, Logan Lerman, Ezra Miller
Charlie (Logan Lerman) è un adolescente di poche parole al primo anno di liceo. Sguardo triste, nessun amico, tanta intelligenza. In Charlie qualcosa non va; la sua testa spesso prende altre strade, percorre dolori del passato, anche recente, che bloccano la voglia e la gioia di vivere tipica di un normale adolescente.
L'impatto con il liceo non è dei migliori, Charlie ha un minimo di rapporto esclusivamente con il professor Andersonn, che ne ha captato le potenzialità. Tutto sembra cambiare quando il timido e impacciato ragazzo incontra Patrick (Ezra Miller) e Sam (Emma Watson) entrambi all'ultimo anno di liceo. Patrick é omosessuale, Sam una ragazza che nei primi anni di liceo ha esagerato con droghe e ragazzi. I tre entrano subito in sintonia, mettono in comune le loro inquetudini, le paure e anche l'entusiasmo della loro giovane età.
Tratto da "The Perks of Being a Wallflower" (edizione italiana "Ragazzo da parete" che sarà di nuovo in libreria con il titolo del film), romanzo uscito nel 1999 a firma di Stephen Chbosky e diretto dallo stesso scrittore, Noi siamo infinito è pellicola pungente e malinconica che quasi mai scade in ruffiani sentimentalismi (e non è poco!).
Delicato quanto basta, Noi siamo infinito si insinua nel mondo dell’adolescenza con mano leggera pur affrontando temi delicatissimi.
Non mancano alcuni passaggi stereotipati, come quello che vede Patrick innamorarsi del forzuto quarterback della squadra di football o ancora peggio il mingherlino protagonista che stende a suon di cazzotti un paio di componenti della suddetta squadra, passaggi che potevano essere evitati, ma che comunque non inficiano la bontà del lavoro che, è bene ricordarlo, va valutato molto con il cuore e poco con la testa.
Pellicola capace di far commuovere, anche grazie all'ottima interpretazione dei tre giovani protagonisti.
Regia: Steven Chbosky
cast: Emma Watson, Logan Lerman, Ezra Miller
Charlie (Logan Lerman) è un adolescente di poche parole al primo anno di liceo. Sguardo triste, nessun amico, tanta intelligenza. In Charlie qualcosa non va; la sua testa spesso prende altre strade, percorre dolori del passato, anche recente, che bloccano la voglia e la gioia di vivere tipica di un normale adolescente.
L'impatto con il liceo non è dei migliori, Charlie ha un minimo di rapporto esclusivamente con il professor Andersonn, che ne ha captato le potenzialità. Tutto sembra cambiare quando il timido e impacciato ragazzo incontra Patrick (Ezra Miller) e Sam (Emma Watson) entrambi all'ultimo anno di liceo. Patrick é omosessuale, Sam una ragazza che nei primi anni di liceo ha esagerato con droghe e ragazzi. I tre entrano subito in sintonia, mettono in comune le loro inquetudini, le paure e anche l'entusiasmo della loro giovane età.
Tratto da "The Perks of Being a Wallflower" (edizione italiana "Ragazzo da parete" che sarà di nuovo in libreria con il titolo del film), romanzo uscito nel 1999 a firma di Stephen Chbosky e diretto dallo stesso scrittore, Noi siamo infinito è pellicola pungente e malinconica che quasi mai scade in ruffiani sentimentalismi (e non è poco!).
Delicato quanto basta, Noi siamo infinito si insinua nel mondo dell’adolescenza con mano leggera pur affrontando temi delicatissimi.
Non mancano alcuni passaggi stereotipati, come quello che vede Patrick innamorarsi del forzuto quarterback della squadra di football o ancora peggio il mingherlino protagonista che stende a suon di cazzotti un paio di componenti della suddetta squadra, passaggi che potevano essere evitati, ma che comunque non inficiano la bontà del lavoro che, è bene ricordarlo, va valutato molto con il cuore e poco con la testa.
Pellicola capace di far commuovere, anche grazie all'ottima interpretazione dei tre giovani protagonisti.
Fabrizio Luperto
Film in sala dal 21 Febbraio 2013
BEAUTIFIL CREATURES - La Sedicesima Luna
di Richard LaGravanese
con Emma Thompson, Jeremy Irons, Emmt Rossum, Thomas Mann
Drammatico 132 min - USA 2013
ANNA KARENINA
di Joe Wright
con Keira Knightley, Jude Law, Kelly MacDonald, Matthew MacFayden, Emily Watson
Drammatico 130 min - GB 2012
CAPTIVE
di Brillante Mendoza
con Isabelle Huppert, Katherine Mulville
Drammatico 120 min - FRA/PHI/GB 2012
GANGSTER SQUAD
di Ruben Fleischer
con Ryan Gosling, Emma Stone, Josh Brolin, Sean Penn, Giovanni Ribisi
Drammatico/Crime 113 min - USA 2012
GAMBIT
di Michael Hoffman
con Colin Firth, Cameron Diaz, Alan Rickman, Stanley Tucci
Commedia 90 min - USA 2012
THE SESSIONS
di Ben Lewin
con Helen Hunt, John Hawkes, William H.Macy,
Drammatico 95 min - USA 2012
THE SUMMIT
di Franco Fracassi, Massimo Lauria
Documentario 97 min - ITA 2011
PINOCCHIO
di Enzo D'Alò
Animazione 84 min - BEL/ITA/FRA/LUX 2013
A PEZZI - Undead Men
di Daniele Statella, Alessia Di Giovanni
con Elena Di Cioccio, Marco Silvestri
Horror 83 min - ITA 2013
ALBERTO IL GRANDE
di Carlo Verdone, Luca Verdone
Documentario - ITA 2013
di Richard LaGravanese
con Emma Thompson, Jeremy Irons, Emmt Rossum, Thomas Mann
Drammatico 132 min - USA 2013
ANNA KARENINA
di Joe Wright
con Keira Knightley, Jude Law, Kelly MacDonald, Matthew MacFayden, Emily Watson
Drammatico 130 min - GB 2012
CAPTIVE
di Brillante Mendoza
con Isabelle Huppert, Katherine Mulville
Drammatico 120 min - FRA/PHI/GB 2012
GANGSTER SQUAD
di Ruben Fleischer
con Ryan Gosling, Emma Stone, Josh Brolin, Sean Penn, Giovanni Ribisi
Drammatico/Crime 113 min - USA 2012
GAMBIT
di Michael Hoffman
con Colin Firth, Cameron Diaz, Alan Rickman, Stanley Tucci
Commedia 90 min - USA 2012
THE SESSIONS
di Ben Lewin
con Helen Hunt, John Hawkes, William H.Macy,
Drammatico 95 min - USA 2012
THE SUMMIT
di Franco Fracassi, Massimo Lauria
Documentario 97 min - ITA 2011
PINOCCHIO
di Enzo D'Alò
Animazione 84 min - BEL/ITA/FRA/LUX 2013
A PEZZI - Undead Men
di Daniele Statella, Alessia Di Giovanni
con Elena Di Cioccio, Marco Silvestri
Horror 83 min - ITA 2013
ALBERTO IL GRANDE
di Carlo Verdone, Luca Verdone
Documentario - ITA 2013
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film in uscita 2013
mercoledì, febbraio 20, 2013
Film telecomandati: The Man From Nowhere
THE MAN FROM NOWHERE
regia di: Jeong-beom Lee
con: B. Won, T. Wong-trakul, S. Kim
- South Corea 2010 - durata 119'
Parlar male della RAI e' come prendersi a sganassoni da soli: oltreché autolesionistico e' cretino e quasi di certo inutile. Quindi, quando sulla superficie dello stagno aziendale si muove qualcosa e' utile tenere gli occhi aperti, perché ti può capitare d'imbatterti in qualcosa d'interessante.
È il caso di questa manciata di film che da qualche stagione la rete di Freccero (RAI 4) propone il martedì in prima serata col titolo - un po' così ma va bene lo stesso - "Missione: estremo oriente".
Si tratta di pellicole recenti e recentissime appartenenti in particolare alla cinematografia coreana e hongkonghese, con incursioni in Giappone e in altri paesi asiatici, accomunate da una precisa estetica e dall'occhio smagato ma ancora partecipe con cui si guarda agli uomini e alle cose dal profondo est del mondo. L'esempio più fresco e tra i più felici e' quello di "The man from nowhere" (2010) di Jeong-beom Lee.
Noir metropolitano diviso tra la violenza senza scampo imposta dal desiderio di vendetta e un altrettanto insopprimibile slancio verso la riconquista di se stessi e della pacificazione interiore, raccoglie, in due ore scarse, suggestioni di un nichilismo ormai stanco e brandelli di sentimenti quasi anacronistici; lampi di crudeltà senza reticenze e tenerezze imprevedibili.
Film cupo e disilluso nel descrivere il deserto psicologico di solitudini abbandonate al tritacarne combinato del profitto e del caso, si apre - dolente ma nitidissimo - a sprazzi di un romanticismo ingenuo e diretto, esausto e, forse, fuori tempo massimo (ma proprio per questo scabroso e avvincente), che dalle nostre parti pochissimi oramai sanno maneggiare e trasmettere - Mann e un certo numero di "serie" in America; Audiard e per altri aspetti i Dardenne nel vecchio continente, e pochi altri in giro tra terre e mari - o semplicemente hanno mollato, riducendolo a macchietta giulebbosa o lagna esistenziale.
Notturno, stilizzato e spettacolare ma brutale, rapido nella costruzione delle scene quanto pervaso da scarti di lancinante malinconia, "The man from nowhere" e i suoi non-eroi si muovono nel cuore del degrado fisico e morale dell'uomo e della grande città moderna in cerca di un motivo per non lasciarsi travolgere dall'indifferenza e dal calcolo che tutto sovrasta, tutto pervade.
Motivo che, forse, non e' da ricercare nemmeno troppo lontano: basta riconoscerlo negli occhi della ragazzina prematuramente sola della porta accanto: lei che, senza difese eppure senza esitazioni, non vuole arrendersi.
(Ciclo "Missione: estremo oriente". RAI 4, ogni martedì, ore 21 ca.)
regia di: Jeong-beom Lee
con: B. Won, T. Wong-trakul, S. Kim
- South Corea 2010 - durata 119'
Parlar male della RAI e' come prendersi a sganassoni da soli: oltreché autolesionistico e' cretino e quasi di certo inutile. Quindi, quando sulla superficie dello stagno aziendale si muove qualcosa e' utile tenere gli occhi aperti, perché ti può capitare d'imbatterti in qualcosa d'interessante.
È il caso di questa manciata di film che da qualche stagione la rete di Freccero (RAI 4) propone il martedì in prima serata col titolo - un po' così ma va bene lo stesso - "Missione: estremo oriente".
Si tratta di pellicole recenti e recentissime appartenenti in particolare alla cinematografia coreana e hongkonghese, con incursioni in Giappone e in altri paesi asiatici, accomunate da una precisa estetica e dall'occhio smagato ma ancora partecipe con cui si guarda agli uomini e alle cose dal profondo est del mondo. L'esempio più fresco e tra i più felici e' quello di "The man from nowhere" (2010) di Jeong-beom Lee.
Noir metropolitano diviso tra la violenza senza scampo imposta dal desiderio di vendetta e un altrettanto insopprimibile slancio verso la riconquista di se stessi e della pacificazione interiore, raccoglie, in due ore scarse, suggestioni di un nichilismo ormai stanco e brandelli di sentimenti quasi anacronistici; lampi di crudeltà senza reticenze e tenerezze imprevedibili.
Film cupo e disilluso nel descrivere il deserto psicologico di solitudini abbandonate al tritacarne combinato del profitto e del caso, si apre - dolente ma nitidissimo - a sprazzi di un romanticismo ingenuo e diretto, esausto e, forse, fuori tempo massimo (ma proprio per questo scabroso e avvincente), che dalle nostre parti pochissimi oramai sanno maneggiare e trasmettere - Mann e un certo numero di "serie" in America; Audiard e per altri aspetti i Dardenne nel vecchio continente, e pochi altri in giro tra terre e mari - o semplicemente hanno mollato, riducendolo a macchietta giulebbosa o lagna esistenziale.
Notturno, stilizzato e spettacolare ma brutale, rapido nella costruzione delle scene quanto pervaso da scarti di lancinante malinconia, "The man from nowhere" e i suoi non-eroi si muovono nel cuore del degrado fisico e morale dell'uomo e della grande città moderna in cerca di un motivo per non lasciarsi travolgere dall'indifferenza e dal calcolo che tutto sovrasta, tutto pervade.
Motivo che, forse, non e' da ricercare nemmeno troppo lontano: basta riconoscerlo negli occhi della ragazzina prematuramente sola della porta accanto: lei che, senza difese eppure senza esitazioni, non vuole arrendersi.
(Ciclo "Missione: estremo oriente". RAI 4, ogni martedì, ore 21 ca.)
The Fisher King
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Film Telecomandati,
recensioni
martedì, febbraio 19, 2013
Gangster Squad
Gangster Squad
di Ruben Fleisher
con Josh Brolin, Sean Penn, Ryan Gosling
Usa 2013
durata, 113
Nella genealogia criminale la figura del Gangster fuoriuscita dagli anni della grande depressione occupa un posto a se stante nel cinema Americano. A metà strada tra storia e leggenda i fuorilegge dai capelli impomatati si sono più volte incrociati con la spettacolarità del cinema hollywoodiano che ha visto in quegli uomini e nelle loro imprese un’edizione aggiornata del mito di Prometeo. Stiamo parlando di tipi come John Dillinger ed Al Capone, le cui gesta sono state immortalate da film e registi importanti come Brian De Palma (“The Untouchables”,1987) e Michael Mann (“Pubblic Enemy”, 2009) che hanno letto in quelle parabole esistenziali l’altra faccia del sogno americano. A questi modelli d’inarrivabile spregiudicatezza una figura come Mickey Cohen appartiene di diritto, nonostante la sua biografia si collochi negli anni d’oro di Los Angeles e quindi sia traslata in avanti di circa un decennio (siamo nella Los Angeles del 1949) rispetto ai prototipi considerati. Di Cohen e della sua ascesa nella città degli angeli si parla in “Gangster Squad”, nuovo film di Ruben Fleischer, il quale, prendendo in prestito un canovaccio molto sfruttato racconta il male dal punto di vista di quelli che lo combattono, e cioè dalla parte delle squadra di sbirri “speciali” messa in piedi dal capo della polizia (Nick Nolte) per smantellare l’organizzazione malavitosa costruita da Cohen. Tra poliziotti corrotti e pupe da salvare la squadra agisce nell’ombra, affrontando il nemico ad armi pari e senza esclusione di colpi. Ma visto che siamo ad Hollywood, e che il pericolo è un ottimo tonificante contro i cali di tensione, succede che qualcosa vada storto, ed il destino prima benevolo diventi improvvisamente contrario ai tutori della legge. There Will Be Blood.
Se il tema principale del film è lo scontro tra il bene ed il male, bisogna dire che “Gangster Squad” non bada a spese pur di organizzare uno spettacolo degno di tale sfida. Nei costumi elegantissimi, ma soprattutto nelle faraoniche scenografie che, negli interni dei locali notturni utilizzati dai bad guys come rendez vous per organizzare i loschi affari, e dove finiranno per confluire in un modo o nell’altro tutti i protagonisti della storia, ma anche negli scorci della città fotografata come un album di ricordi da Dion Beebe già autore di un affresco della città che aveva reso indimenticabile “Collateral” (2004), trovano la loro ragione d'essere. Un allestimento in grande stile anche per la presenza di un cast superbo, con Sean Penn nei panni di Cohen e tra gli altri Josh Brolin/il sergente John O’Mara (“Non è un paese per vecchi”, 2007) e Ryan Gosling (Drive, 2012) in quelli dei super poliziotti, ed a cui pero la regia non rende merito. Abituato a copioni ibridi, costruiti sulla convivenza dei generi - parliamo dello zombie movie Zombieland, orrorifico ed insieme ridanciano ma anche della comedy drama 50 e 50 – Ruben Fleischer sembra in soggezione rispetto ad un plot classico come quello di “Gangster Squad”. Il risultato è una direzione troppo ossequiosa per paura di andare fuori tema. In questo modo a cominciare dai caratteri per finire allo sviluppo dell’intreccio tutto sembra procedere con il pilota automatico, come se l’ordalia di eventi e chi ne fa parte fossero le tappe di un viaggio organizzato in un luna park di meraviglie preconfezionate. In questo modo la faccia caricaturale e deformata dal male messa addosso a Sean Penn/Mickey Coen può lasciare di stucco, e così la fisiognomica del personaggio interpretato da Brolin non può non rimandare per la mascella squadrata e la faccia a ferro da stiro alle stilizzazioni di un fumetto come Dick Tracy (ma anche il Cohen di Penn ricorda molto il Big Boy Caprice di Al Pacino nel film di Beatty), ed ancora il fascino da simpatica canaglia di Gosling non potrà non conquistare buona parte della compagine femminile, ma rimane intatta la sensazione di un’operazione poco coinvolgente, raffreddata dalla volontà di replicare l’immaginario iconografico gestuale delle opere di riferimento.
Link al concorso:
http://www.nessundistintivo.it/
di Ruben Fleisher
con Josh Brolin, Sean Penn, Ryan Gosling
Usa 2013
durata, 113
Nella genealogia criminale la figura del Gangster fuoriuscita dagli anni della grande depressione occupa un posto a se stante nel cinema Americano. A metà strada tra storia e leggenda i fuorilegge dai capelli impomatati si sono più volte incrociati con la spettacolarità del cinema hollywoodiano che ha visto in quegli uomini e nelle loro imprese un’edizione aggiornata del mito di Prometeo. Stiamo parlando di tipi come John Dillinger ed Al Capone, le cui gesta sono state immortalate da film e registi importanti come Brian De Palma (“The Untouchables”,1987) e Michael Mann (“Pubblic Enemy”, 2009) che hanno letto in quelle parabole esistenziali l’altra faccia del sogno americano. A questi modelli d’inarrivabile spregiudicatezza una figura come Mickey Cohen appartiene di diritto, nonostante la sua biografia si collochi negli anni d’oro di Los Angeles e quindi sia traslata in avanti di circa un decennio (siamo nella Los Angeles del 1949) rispetto ai prototipi considerati. Di Cohen e della sua ascesa nella città degli angeli si parla in “Gangster Squad”, nuovo film di Ruben Fleischer, il quale, prendendo in prestito un canovaccio molto sfruttato racconta il male dal punto di vista di quelli che lo combattono, e cioè dalla parte delle squadra di sbirri “speciali” messa in piedi dal capo della polizia (Nick Nolte) per smantellare l’organizzazione malavitosa costruita da Cohen. Tra poliziotti corrotti e pupe da salvare la squadra agisce nell’ombra, affrontando il nemico ad armi pari e senza esclusione di colpi. Ma visto che siamo ad Hollywood, e che il pericolo è un ottimo tonificante contro i cali di tensione, succede che qualcosa vada storto, ed il destino prima benevolo diventi improvvisamente contrario ai tutori della legge. There Will Be Blood.
Se il tema principale del film è lo scontro tra il bene ed il male, bisogna dire che “Gangster Squad” non bada a spese pur di organizzare uno spettacolo degno di tale sfida. Nei costumi elegantissimi, ma soprattutto nelle faraoniche scenografie che, negli interni dei locali notturni utilizzati dai bad guys come rendez vous per organizzare i loschi affari, e dove finiranno per confluire in un modo o nell’altro tutti i protagonisti della storia, ma anche negli scorci della città fotografata come un album di ricordi da Dion Beebe già autore di un affresco della città che aveva reso indimenticabile “Collateral” (2004), trovano la loro ragione d'essere. Un allestimento in grande stile anche per la presenza di un cast superbo, con Sean Penn nei panni di Cohen e tra gli altri Josh Brolin/il sergente John O’Mara (“Non è un paese per vecchi”, 2007) e Ryan Gosling (Drive, 2012) in quelli dei super poliziotti, ed a cui pero la regia non rende merito. Abituato a copioni ibridi, costruiti sulla convivenza dei generi - parliamo dello zombie movie Zombieland, orrorifico ed insieme ridanciano ma anche della comedy drama 50 e 50 – Ruben Fleischer sembra in soggezione rispetto ad un plot classico come quello di “Gangster Squad”. Il risultato è una direzione troppo ossequiosa per paura di andare fuori tema. In questo modo a cominciare dai caratteri per finire allo sviluppo dell’intreccio tutto sembra procedere con il pilota automatico, come se l’ordalia di eventi e chi ne fa parte fossero le tappe di un viaggio organizzato in un luna park di meraviglie preconfezionate. In questo modo la faccia caricaturale e deformata dal male messa addosso a Sean Penn/Mickey Coen può lasciare di stucco, e così la fisiognomica del personaggio interpretato da Brolin non può non rimandare per la mascella squadrata e la faccia a ferro da stiro alle stilizzazioni di un fumetto come Dick Tracy (ma anche il Cohen di Penn ricorda molto il Big Boy Caprice di Al Pacino nel film di Beatty), ed ancora il fascino da simpatica canaglia di Gosling non potrà non conquistare buona parte della compagine femminile, ma rimane intatta la sensazione di un’operazione poco coinvolgente, raffreddata dalla volontà di replicare l’immaginario iconografico gestuale delle opere di riferimento.
Link al concorso:
http://www.nessundistintivo.it/
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recensioni
lunedì, febbraio 18, 2013
VIva la libertà di Nickoftime ed AdeleH
Ci sono alcuni film destinati a dividere. E' inevitabile per il DNA dei loro contenuti. "Viva la libertà" di Roberto Andò è uno di questi e noi potendocelo permettere abbiamo pensato di fare in questo modo e cioè presentare due recensioni che la vedono in maniera diversa. Il tutto con quello spirito di leggerezza cinefila che da sempre ci trova in prima fila. Buon divertimento.
Viva la libertà
di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea
Italia 2013
durata, 94
Viva la libertà di Nickoftime (NO)
Ciclicamente la politica ed i suoi sodali tornano ad interessare i nostri registi. Costola nobile del movimento neorealista, il cinema che si occupa della "res pubblica" si è distinto nel corso del tempo per la tendenza a descrivere il potere e le sue istituzioni con una lente deformante, capace di descrivere le forme di una stortura che sembra connaturata con l'esercizio stesso di quella funzione. Nel farlo ha concepito personaggi ambivalenti per natura, in quanto combinazione d'elementi che appartengono al reale ed all'astratto, ma innanzitutto portatori di un io smisurato per la capacità di diventare luogo della retorica e del continuo mascheramento. Dall'invenzione del ministro Giovanni Botero ("Il portaborse", 1991) alla psico biografia del "divo" Giulio ("Il divo", 2008) passando per le boutade dei vari Armando Feroci ("Gallo Cedrone", 1991) e Massimo Bonfili ("Commediasexi, 2006) e senza dimenticare il Berlusconi telecratico di "S.B. Io lo conoscevo bene" (2012) appena giunto sugli schermi, l'uomo politico nel cinema italiano è destinato, per eccesso di idiosincrasie, a fagocitare l'attenzione dello spettatore. Anche a costo di mettere in secondo piano la dialettica tra il cittadino eletto dal popolo e l'humus sociale e culturale in cui nasce e si svolge la sua azione.
In questo caso poi la posta messa in palio da Roberto Andò con il suo "Viva la libertà" era ancora più alta, perché la storia del segretario del principale partito d'opposizione Enrico Olivieri, e del fratello gemello Ernani che ne prenderà il posto quando il primo fuggirà da una vita deprimente e da una campagna elettorale fallimentare, non era solo la rappresentazione di una crisi simbolica - dei valori di un partito e delle sue idee, ma anche di una nazione che non è più in grado di generare gli anticorpi necessari ad eliminare le sue disfunzioni - e quindi attribuibile a qualunque stagione politica, ma al contrario si collocava nella contingenza quotidiana, con tutti i riferimenti del caso, e con un tempismo - accelerato anche dal distributore che cavalcando i tempi ne ha anticipato l'uscita - da istant movie per la sovrapposizione tra le vicende dello schermo, e quelle che media e giornali ci stanno raccontando nel corso di queste settimane, come quelle del film caratterizzate dal dibattito elettorale e dalla caccia al voto. Materiale incandescente che il film traduce attraverso due stati d'animo differenti ed opposti, fatti risalire alle diverse condizioni dei due fratelli. Così se da una parte c'è lo spaesamento di Enrico di fronte ad un'inquietudine che è innanzitutto una crisi di coscienza personale, che, come vedremo, farà entrare in gioco attraverso la figura di Danielle (Valeria Bruni Tedeschi) un sospeso che ha influito negativamente sui rapporti tra i due protagonisti, dall'altra si assiste ad una rinascita per interposta persona, attraverso la leggerezza di un uomo, Ernani, appena uscito da un centro di igiene mentale, che mette a disposizione - del fratello, del partito, del paese - la propria libertà intellettuale e l'indipendenza di giudizio affinché si compia il miracolo di una politica che smetta di "inventare la realtà e di conseguenza cessi di essere impostura". Diretto e sceneggiato da Roberto Andò che lo ha tradotto per il cinema dopo averlo scritto sotto forma di romanzo (con il titolo di "Il trono vuoto", esordio letterario del regista) "Viva la libertà" mette la politica sul lettino dello psicanalista, e lo fa iniziando da ciò che gli sta più a cuore, e che forse conosce meglio, ovvero da quella corrente d'opposizione in cui non si fa fatica a riconoscere il partito democratico, per analizzare le ragioni di una promessa mancata, ma soprattutto per rilanciarne l'azione, facendo leva sugli ideali smarriti. Una mancanza d'identità ed uno scoramento sottolineato dall'inerzia con cui viene ritratto non solo Olivieri, ma anche il resto dei "compagni", gregge laconico e smarrito in attesa del figliol prodigo. Nella difficoltà di pronunciare "qualcosa di sinistra" Andò mette in campo possibili modelli, e lo fa affidandosi alle parole ed alle poesie di Bertolt Brecht, pronunciate da Ernani tra lo sbigottimento degli astanti in una delle prime apparizioni sotto mentite spoglie, oppure riproponendo la figura di Federico Fellini, artista senza compromessi, la cui strenua opposizione, e la successiva sconfitta di fronte al decadimento culturale rappresentò un segnale d'allarme (inascoltato) verso il punto di non ritorno. Il regista fa di lui una specie di Cassandra quando ce lo mostra in un breve inserto d'archivio. Solitamente pacato e dalla voce gentile, Fellini vi appare urlante e scomposto per l'inquietudine di una violazione, quella subita dalle sue opere, tagliate arbitrariamente per fare spazio agli inserti pubblicitari, che sembra ferire non solo la sua dignità d'autore ma anche quella di migliaia di Italiani costretti a subire l'imbarbarimento imposto dal profitto.
Una chiamata alle armi che il regista affida all'esperienza e soprattutto alle qualità di Toni Servillo, attore "civile" se ce n'è uno, che, sull'esempio indimenticabile di un grande come Gian Maria Volontè, e sulla scia di un curriculum segnato in maniera indelebile da personaggi provenienti dal mondo politico (oltre al film di Sorrentino, lo ricordiamo nel recente e sottovalutato "Bella addormentata", 2012) si cimenta nel doppio ruolo di Olivieri ed Ernani a cui presta un camaleontismo fatto di esperienza, ed anche di cuore. Il risultato è un'interpretazione a fasi alterne giocata molto sui diversi registri del film (grottesco, surreale ed anche intimo) e che però, più di una volta, corre il rischio di diventare istrionica e di maniera. Complessivamente invece, pur riconoscendo il livello della confezione, e l'impegno profuso tanto nella qualità della componente attoriale, quanto nella precisione della messinscena, non si può non notare una semplificazione eccessiva nelle psicologie dei personaggi, e più in generale nell'apparato teorico della storia, presente in maniera esaustiva nel libro, ed invece carente nella trasposizione filmica. Una riduzione che conferisce all'opera un senso d'approssimazione ed una consequenzialità aprioristica, calcolata invece che spontanea. In questo senso è illuminante la decisione finale di Olivieri, quella che decide le sorti della vicenda, la cui resa oltre alla sensazione di non essere supportata dal necessario bagaglio emotivo, sembra sciogliersi con un fare nebuloso, e con una motivazione figlia più del desiderio di chiudere il cerchio che di spiegarlo. Da questo punto di vista risulta migliore, anche se un po' troppo compiaciuta (ci riferiamo ai vezzi ed ai tic rivelatori di una latente follia), la figura di Ernani, almeno lui, estrinsecato come si conviene ad un fool della sua portata. Favola filosofica che indaga sui mali di un paese in agonia, "Viva la libertà" non mancherà di stupire per l'irridente scherzosità di certi passaggi, fatti ad arte per ironizzare su una classe politica che si copre di ridicolo (anche il presidente della Repubblica non viene risparmiato) ma rimane forte l'impressione dell'ennesima occasione mancata.
(pubblicata su ondacinema.it)
Viva la libertà di AdeleH (SI)
Ad una visione impreparata e quindi non informata sulla complessità dei contenuti palesi o nascosti, il film VIVA LA LIBERTA’ di Roberto Andò, da lui sceneggiato sulla base del suo romanzo Il trono vuoto, che non ho letto, mi è sembrato un bel film, scorrevole, con un che di thriller che scatta quando subentra un doppio in una storia, a tratti esilarante, sempre gradevole e condotto con mano magistralmente leggera. Nel frattempo ci si accorge che siamo anche nella fantapolitica e la cosa comincia a sconcertare se non turbare, proprio di questi tempi, in cui una dura campagna elettorale e una situazione di crisi economica, ideologica e di coscienza, non dispongono chi nel cinema, come arte, non cerca solo lo svago e la leggerezza ma anche simboli, messaggi, stimoli per la fantasia e passione con cui vivere al meglio quella che è comunque la realtà, a cercare di identificare chi, cosa, come. Si decide,quindi, di rimanere obiettivi e attenti, e non cercare spunti di discussioni sbrodolate e non reali, che nemmeno il serio e coltissimo regista, con notevole passato teatrale, credo intenda fornire se non un’esperienza di rinnovamento del suo modo di fare cinema e si segue sino alla fine la storia che via via si arricchisce di approfondimenti umani sui singoli personaggi così come li presenta l’Autore, avvalendosi di attori di alto livello e tutti al massimo dell’immedesimazione e gioia di interpretare i ruoli loro affidati. Non si può che elogiare per la sincerità e le emozioni che trasmette Valerio Mastandrea, che in Andrea Bottini, il fibrillante “secondo” del segretario dell’opposizione Enrico Oliveri, in fuga momentanea per i sondaggi negativi e poi del fratello gemello Giovanni Ernani, depresso bipolare, subisce una metamorfosi dal cinismo alla speranza, attraverso mille espressioni mimiche e gestuali che lo accostano sempre più al secondo; lo stesso vale anche per i contributi di Michela Cescon, solida moglie di Enrico e Valeria Bruni Tedeschi, recuperato, per l’occasione, ex amore di gioventù di ambedue i fratelli. Splendido cameo del grande Gianrico Tedeschi. E poi c’è Toni Servillo, in agio felice nel doppio ruolo dei gemelli, come tutti gli attori specie se grandi, dove esprime la cupa depressione ansiosa del politico in crisi e la contagiosa euforia del gemello filosofo pazzo che incute speranza con citazioni colte e indimenticabili per la loro bellezza, come i versi di Brecht, o balla felice più con i suoi amici della clinica psichiatrica, in cui è stato ricoverato e va a trovare, che con una simbolica cancelliera tedesca visto dal buco della serratura, con una maestria ormai mitica, che si esprime più che nelle differenze nelle affinità che li rendono indistinguibili e allora …al ritorno di Enrico, chi sarà dei due? Buona visione di un film notevole.
Viva la libertà
di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea
Italia 2013
durata, 94
Viva la libertà di Nickoftime (NO)
Ciclicamente la politica ed i suoi sodali tornano ad interessare i nostri registi. Costola nobile del movimento neorealista, il cinema che si occupa della "res pubblica" si è distinto nel corso del tempo per la tendenza a descrivere il potere e le sue istituzioni con una lente deformante, capace di descrivere le forme di una stortura che sembra connaturata con l'esercizio stesso di quella funzione. Nel farlo ha concepito personaggi ambivalenti per natura, in quanto combinazione d'elementi che appartengono al reale ed all'astratto, ma innanzitutto portatori di un io smisurato per la capacità di diventare luogo della retorica e del continuo mascheramento. Dall'invenzione del ministro Giovanni Botero ("Il portaborse", 1991) alla psico biografia del "divo" Giulio ("Il divo", 2008) passando per le boutade dei vari Armando Feroci ("Gallo Cedrone", 1991) e Massimo Bonfili ("Commediasexi, 2006) e senza dimenticare il Berlusconi telecratico di "S.B. Io lo conoscevo bene" (2012) appena giunto sugli schermi, l'uomo politico nel cinema italiano è destinato, per eccesso di idiosincrasie, a fagocitare l'attenzione dello spettatore. Anche a costo di mettere in secondo piano la dialettica tra il cittadino eletto dal popolo e l'humus sociale e culturale in cui nasce e si svolge la sua azione.
In questo caso poi la posta messa in palio da Roberto Andò con il suo "Viva la libertà" era ancora più alta, perché la storia del segretario del principale partito d'opposizione Enrico Olivieri, e del fratello gemello Ernani che ne prenderà il posto quando il primo fuggirà da una vita deprimente e da una campagna elettorale fallimentare, non era solo la rappresentazione di una crisi simbolica - dei valori di un partito e delle sue idee, ma anche di una nazione che non è più in grado di generare gli anticorpi necessari ad eliminare le sue disfunzioni - e quindi attribuibile a qualunque stagione politica, ma al contrario si collocava nella contingenza quotidiana, con tutti i riferimenti del caso, e con un tempismo - accelerato anche dal distributore che cavalcando i tempi ne ha anticipato l'uscita - da istant movie per la sovrapposizione tra le vicende dello schermo, e quelle che media e giornali ci stanno raccontando nel corso di queste settimane, come quelle del film caratterizzate dal dibattito elettorale e dalla caccia al voto. Materiale incandescente che il film traduce attraverso due stati d'animo differenti ed opposti, fatti risalire alle diverse condizioni dei due fratelli. Così se da una parte c'è lo spaesamento di Enrico di fronte ad un'inquietudine che è innanzitutto una crisi di coscienza personale, che, come vedremo, farà entrare in gioco attraverso la figura di Danielle (Valeria Bruni Tedeschi) un sospeso che ha influito negativamente sui rapporti tra i due protagonisti, dall'altra si assiste ad una rinascita per interposta persona, attraverso la leggerezza di un uomo, Ernani, appena uscito da un centro di igiene mentale, che mette a disposizione - del fratello, del partito, del paese - la propria libertà intellettuale e l'indipendenza di giudizio affinché si compia il miracolo di una politica che smetta di "inventare la realtà e di conseguenza cessi di essere impostura". Diretto e sceneggiato da Roberto Andò che lo ha tradotto per il cinema dopo averlo scritto sotto forma di romanzo (con il titolo di "Il trono vuoto", esordio letterario del regista) "Viva la libertà" mette la politica sul lettino dello psicanalista, e lo fa iniziando da ciò che gli sta più a cuore, e che forse conosce meglio, ovvero da quella corrente d'opposizione in cui non si fa fatica a riconoscere il partito democratico, per analizzare le ragioni di una promessa mancata, ma soprattutto per rilanciarne l'azione, facendo leva sugli ideali smarriti. Una mancanza d'identità ed uno scoramento sottolineato dall'inerzia con cui viene ritratto non solo Olivieri, ma anche il resto dei "compagni", gregge laconico e smarrito in attesa del figliol prodigo. Nella difficoltà di pronunciare "qualcosa di sinistra" Andò mette in campo possibili modelli, e lo fa affidandosi alle parole ed alle poesie di Bertolt Brecht, pronunciate da Ernani tra lo sbigottimento degli astanti in una delle prime apparizioni sotto mentite spoglie, oppure riproponendo la figura di Federico Fellini, artista senza compromessi, la cui strenua opposizione, e la successiva sconfitta di fronte al decadimento culturale rappresentò un segnale d'allarme (inascoltato) verso il punto di non ritorno. Il regista fa di lui una specie di Cassandra quando ce lo mostra in un breve inserto d'archivio. Solitamente pacato e dalla voce gentile, Fellini vi appare urlante e scomposto per l'inquietudine di una violazione, quella subita dalle sue opere, tagliate arbitrariamente per fare spazio agli inserti pubblicitari, che sembra ferire non solo la sua dignità d'autore ma anche quella di migliaia di Italiani costretti a subire l'imbarbarimento imposto dal profitto.
Una chiamata alle armi che il regista affida all'esperienza e soprattutto alle qualità di Toni Servillo, attore "civile" se ce n'è uno, che, sull'esempio indimenticabile di un grande come Gian Maria Volontè, e sulla scia di un curriculum segnato in maniera indelebile da personaggi provenienti dal mondo politico (oltre al film di Sorrentino, lo ricordiamo nel recente e sottovalutato "Bella addormentata", 2012) si cimenta nel doppio ruolo di Olivieri ed Ernani a cui presta un camaleontismo fatto di esperienza, ed anche di cuore. Il risultato è un'interpretazione a fasi alterne giocata molto sui diversi registri del film (grottesco, surreale ed anche intimo) e che però, più di una volta, corre il rischio di diventare istrionica e di maniera. Complessivamente invece, pur riconoscendo il livello della confezione, e l'impegno profuso tanto nella qualità della componente attoriale, quanto nella precisione della messinscena, non si può non notare una semplificazione eccessiva nelle psicologie dei personaggi, e più in generale nell'apparato teorico della storia, presente in maniera esaustiva nel libro, ed invece carente nella trasposizione filmica. Una riduzione che conferisce all'opera un senso d'approssimazione ed una consequenzialità aprioristica, calcolata invece che spontanea. In questo senso è illuminante la decisione finale di Olivieri, quella che decide le sorti della vicenda, la cui resa oltre alla sensazione di non essere supportata dal necessario bagaglio emotivo, sembra sciogliersi con un fare nebuloso, e con una motivazione figlia più del desiderio di chiudere il cerchio che di spiegarlo. Da questo punto di vista risulta migliore, anche se un po' troppo compiaciuta (ci riferiamo ai vezzi ed ai tic rivelatori di una latente follia), la figura di Ernani, almeno lui, estrinsecato come si conviene ad un fool della sua portata. Favola filosofica che indaga sui mali di un paese in agonia, "Viva la libertà" non mancherà di stupire per l'irridente scherzosità di certi passaggi, fatti ad arte per ironizzare su una classe politica che si copre di ridicolo (anche il presidente della Repubblica non viene risparmiato) ma rimane forte l'impressione dell'ennesima occasione mancata.
(pubblicata su ondacinema.it)
Viva la libertà di AdeleH (SI)
Ad una visione impreparata e quindi non informata sulla complessità dei contenuti palesi o nascosti, il film VIVA LA LIBERTA’ di Roberto Andò, da lui sceneggiato sulla base del suo romanzo Il trono vuoto, che non ho letto, mi è sembrato un bel film, scorrevole, con un che di thriller che scatta quando subentra un doppio in una storia, a tratti esilarante, sempre gradevole e condotto con mano magistralmente leggera. Nel frattempo ci si accorge che siamo anche nella fantapolitica e la cosa comincia a sconcertare se non turbare, proprio di questi tempi, in cui una dura campagna elettorale e una situazione di crisi economica, ideologica e di coscienza, non dispongono chi nel cinema, come arte, non cerca solo lo svago e la leggerezza ma anche simboli, messaggi, stimoli per la fantasia e passione con cui vivere al meglio quella che è comunque la realtà, a cercare di identificare chi, cosa, come. Si decide,quindi, di rimanere obiettivi e attenti, e non cercare spunti di discussioni sbrodolate e non reali, che nemmeno il serio e coltissimo regista, con notevole passato teatrale, credo intenda fornire se non un’esperienza di rinnovamento del suo modo di fare cinema e si segue sino alla fine la storia che via via si arricchisce di approfondimenti umani sui singoli personaggi così come li presenta l’Autore, avvalendosi di attori di alto livello e tutti al massimo dell’immedesimazione e gioia di interpretare i ruoli loro affidati. Non si può che elogiare per la sincerità e le emozioni che trasmette Valerio Mastandrea, che in Andrea Bottini, il fibrillante “secondo” del segretario dell’opposizione Enrico Oliveri, in fuga momentanea per i sondaggi negativi e poi del fratello gemello Giovanni Ernani, depresso bipolare, subisce una metamorfosi dal cinismo alla speranza, attraverso mille espressioni mimiche e gestuali che lo accostano sempre più al secondo; lo stesso vale anche per i contributi di Michela Cescon, solida moglie di Enrico e Valeria Bruni Tedeschi, recuperato, per l’occasione, ex amore di gioventù di ambedue i fratelli. Splendido cameo del grande Gianrico Tedeschi. E poi c’è Toni Servillo, in agio felice nel doppio ruolo dei gemelli, come tutti gli attori specie se grandi, dove esprime la cupa depressione ansiosa del politico in crisi e la contagiosa euforia del gemello filosofo pazzo che incute speranza con citazioni colte e indimenticabili per la loro bellezza, come i versi di Brecht, o balla felice più con i suoi amici della clinica psichiatrica, in cui è stato ricoverato e va a trovare, che con una simbolica cancelliera tedesca visto dal buco della serratura, con una maestria ormai mitica, che si esprime più che nelle differenze nelle affinità che li rendono indistinguibili e allora …al ritorno di Enrico, chi sarà dei due? Buona visione di un film notevole.
BROKEN CITY
BROKEN CITY (Usa 2012)
Regia: Allen Hughes
Cast: Russel Crowe - Mark Walhberg - Catherine Zeta-Jones - Barry Pepper
New York: il poliziotto Billy Taggart (Mark Walhberg) giustizia un violentatore assassino. Il sindaco della città, Hostetler (Russel Crowe), riesce a farlo assolvere dall'accusa di omicidio occultando le prove della sua colpevolezza, ottenendo, in cambio, le dimissioni dalla polizia.
Sette anni dopo, Hostetler corre per riconfermarsi sindaco della città e ingaggia l'ex poliziotto Taggart, ora detective privato, per cercare le prove dei tradimenti della moglie (Catherine Zeta-Jones).
In una New York moralmente decadente, il regista Hughes e lo sceneggiatore Brian Tucker imbastiscono una storia poliziesca a sfondo politico condita con corruzione, sesso, perfidia, botte, intrighi, omicidi.
Ingredienti succulenti per gli amanti del genere, ma che in Broken City risultano essere spesso insipidi, non agevolati da una sceneggiatura che ogni tanto vira su meccanismi da serie Tv, che punta molto sul ritmo e inevitabilmente dissemina qualche buco.
Mi spiego meglio; non basta buttar giù qualche whisky per fare un alcolizzato e non basta metter in mano ad un uomo una birra mentre una lei gli pratica una fellatio per descrivere uno squallido tradimento, specie se il tutto è confezionato con un gioco di luci vedo-non-vedo.
Personaggi che escono di scena in maniera brusca (la donna del protagonista) e il modo inverosimile in cui Taggart entra in possesso del telefonino della moglie del sindaco sono il chiaro sintomo di una scrittura poco realistica che concorre ad affossare quel poco di buono che c'è in Broken City.
La convincente interpretazione di Russel Crowe e le belle riprese notturne tengono in piedi la traballante baracca.
Per la serie poteva essere e invece non è stato.
Regia: Allen Hughes
Cast: Russel Crowe - Mark Walhberg - Catherine Zeta-Jones - Barry Pepper
New York: il poliziotto Billy Taggart (Mark Walhberg) giustizia un violentatore assassino. Il sindaco della città, Hostetler (Russel Crowe), riesce a farlo assolvere dall'accusa di omicidio occultando le prove della sua colpevolezza, ottenendo, in cambio, le dimissioni dalla polizia.
Sette anni dopo, Hostetler corre per riconfermarsi sindaco della città e ingaggia l'ex poliziotto Taggart, ora detective privato, per cercare le prove dei tradimenti della moglie (Catherine Zeta-Jones).
In una New York moralmente decadente, il regista Hughes e lo sceneggiatore Brian Tucker imbastiscono una storia poliziesca a sfondo politico condita con corruzione, sesso, perfidia, botte, intrighi, omicidi.
Ingredienti succulenti per gli amanti del genere, ma che in Broken City risultano essere spesso insipidi, non agevolati da una sceneggiatura che ogni tanto vira su meccanismi da serie Tv, che punta molto sul ritmo e inevitabilmente dissemina qualche buco.
Mi spiego meglio; non basta buttar giù qualche whisky per fare un alcolizzato e non basta metter in mano ad un uomo una birra mentre una lei gli pratica una fellatio per descrivere uno squallido tradimento, specie se il tutto è confezionato con un gioco di luci vedo-non-vedo.
Personaggi che escono di scena in maniera brusca (la donna del protagonista) e il modo inverosimile in cui Taggart entra in possesso del telefonino della moglie del sindaco sono il chiaro sintomo di una scrittura poco realistica che concorre ad affossare quel poco di buono che c'è in Broken City.
La convincente interpretazione di Russel Crowe e le belle riprese notturne tengono in piedi la traballante baracca.
Per la serie poteva essere e invece non è stato.
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recensioni
domenica, febbraio 17, 2013
Promise Land
Promise Land
di Gus Van Sant
con Matta Damon, John Krasinski
Usa 2013
durata, 106
In questo film Gus Van Sant affronta con molto equilibrio e
imparzialità, lasciando allo spettatore la libertà di farsi una sua
opinione, il problema del salvataggio (o sfruttamento rischioso?) che
le società di estrazione di gas naturale, in tal caso, ma potrebbe
essere petrolio o carbone, propongono ai proprietari di terreni agricoli
in crescente difficoltà di sopravvivenza. In un una cittadina rurale
dal nome fittizio, McKinley, nella contea di Armstrong ( Pennsylvania),
la Global Energy manda due suoi impiegati a convincere i singoli
cittadini ad accettare in cambio di una somma di danaro la concessione
dei diritti di perforazione dei loro terreni per estrarre del gas
naturale. Steve( Matt Damon) e Sue (Frances McDormand) iniziano la loro
opera con ottimismo e disinvoltura, l’una perché per lei è solo un
lavoro e ha marito e figlio a casa, l’altro perché, reduce da una
grossa sconfitta nel destino della fattoria del nonno in cui era
cresciuto, vuole tentare di rifarsi un progetto di vita più consona alla
moderna esigenza di consumi e benessere. Fisicamente i due sono
perfetti la McDormand, sufficientemente casuale e ruvida, Damon
infagottato, oltre che in una minacciosa pinguedine, in camicia di
fustagno e jeans, con orrendi e stravecchi scarponi, per cui si
integrano bene nel paesaggio di modeste abitazioni, povere fattorie con
cavalli i miniatura, e distese verdi attraversate da strade terrose, che
la fotografia di Linus Sandgren desatura modicamente nel colore
secondo le esigenze del regista che vuole il paesaggio disteso e
inoffensivo.La faccenda si complica per l’eterogeneità dei sentimenti
dei singoli, dalla voglia di risalire la china all’ attaccamento alla
povera ma sicura tradizione, anche per le voci che girano su possibili
gravi effetti inquinanti sulle falde acquifere a seguito della
fratturazione. Ma la popolazione è incerta e sbandata, se non venisse
espressa pubblicamente una forte opinione a sfavore del far toccare i
terreni per i possibili danni da un anziano professore universitario di
fisica, che vive sul posto in pensione e ha un grande carisma su tutti,
rappresentanza comunale compresa, per cui viene chiesto un periodo di
due settimane per decidere e arrivare ad una votazione generale. Nel
frattempo arriva un deciso e fascinoso ecologista (John Krasinski) che
destabilizza in negativo l’opinione generale, mettendo in cattiva luce i
due emissari della Global Energy ,con parole insinuanti e una
ubiquitaria affissione di manifesti dove con una foto, vengono
mostratoti i danni delle trivellazioni in una fattoria e sul bestiame.
Steve e Sue proseguono comunque la loro opera di acclimatazione,
stringendo relazioni umane e partecipando ai piccoli svaghi serali nei
bar, come il canto su tema suonato da una band. Alla fine si profila per
loro uno strabiliante successo grazie a una smentita clamorosa, giunta
per posta, dell’attendibilità di quel manifesto la cui foto era di
anni prima e truccata.Poi però si verificherà un colpo di scena che non
è il caso di raccontare qui,se non che Steve, in tale occasione
maturerà una scelta di vita e di ambiente definitiva. La storia si fa
vedere bene, con un ritmo un po’ lento, su uno script che solo un grande
regista come Gus Van Sant poteva tenere in pugno, contorto e deviante
dai temi sociali a quelli personali, qual'è, senza alcuna armonia forse
perché ci si sono adoperate troppe mani, da una storia di Dave Eggers,
passata alla scrittura a quattro mani di John Krasinski e Matt Damon.
Suadente e in tono la colonna sonora su base folk, con brani di Sammy
Smith, Hank Williams, Bruce Springsteen. Sia i generici locali che gli
attori professionisti ricreano con verosimiglianza il conflitto e il
disagio che fanno provare, in tempi di declino, proposte di cambiamenti
economici e ambientali a rischio, in particolare anche Matt Damon è
perfettamente in parte, forse perché il suo ruolo da onesto travagliato
dal dubbio gli è congeniale.
di Gus Van Sant
con Matta Damon, John Krasinski
Usa 2013
durata, 106
sabato, febbraio 16, 2013
Film Telecomandati - American Gangster
Film Telecomandati - American Gangster (2007)
Regia: Ridley Scott
Cast: Denzel washington - Russel Crowe - Josh Brolin
In onda sabato 16 febbraio alle 21.30 su Rete 4.
Harlem 1968. Frank Lucas: nero, affascinante, è la guardia del corpo di un anziano boss che gestisce il quartiere con metodi vecchio stampo, ascolta le preghiere della gente di Harlem e regala tacchini il giorno del ringraziamento. Richie Roberts: bianco, ebreo, laureato, sbirro, vita coniugale incasinata e da la caccia ai malavitosi.
Alla morte (naturale) del vecchio padrino, Frank Lucas rompe gli indugi, elimina i vecchi modi di fare e in pochi anni diventa l'indiscusso Re dell'eroina, andandosi a rifornire, a prezzi stracciati, direttamente in Vietnam con la complicità di soldati Usa impegnati nel conflitto.
Anche questa volta Ridley Scott ci racconta la storia di due antagonisti come ha già fatto ne I DUELLANTI e ne IL GLADIATORE.
Oltre ai capi ci sono anche gli eserciti; lo spacciatore Lucas a capo della sua banda e supportato da un buon numero di poliziotti corrotti (sublime Josh Brolin), Roberts a capo dei giusti, duri e puri.
Tentativo di cinema d'intrattenimento colto, sullo sfondo la guerra del Vietnam con tutti gli interessi che ruotano intorno al conflitto, interessi politici e criminali che muovono fiumi di dollari.
Peccato che la vita del ghetto, la vita squallida dei tossici "duri", non siano rappresentate in maniera adeguata e che la guerra del Vietnam, rimanga solo abbozzata.
Il film si mantiene sulla superficie delle cose, R. Scott preferisce puntare sulle intrpretazioni del grande cast piuttosto che su una messa in scena più aderente alla realtà.
Ottimo per gli occhi forse un pò meno per il cuore.
Regia: Ridley Scott
Cast: Denzel washington - Russel Crowe - Josh Brolin
In onda sabato 16 febbraio alle 21.30 su Rete 4.
Harlem 1968. Frank Lucas: nero, affascinante, è la guardia del corpo di un anziano boss che gestisce il quartiere con metodi vecchio stampo, ascolta le preghiere della gente di Harlem e regala tacchini il giorno del ringraziamento. Richie Roberts: bianco, ebreo, laureato, sbirro, vita coniugale incasinata e da la caccia ai malavitosi.
Alla morte (naturale) del vecchio padrino, Frank Lucas rompe gli indugi, elimina i vecchi modi di fare e in pochi anni diventa l'indiscusso Re dell'eroina, andandosi a rifornire, a prezzi stracciati, direttamente in Vietnam con la complicità di soldati Usa impegnati nel conflitto.
Anche questa volta Ridley Scott ci racconta la storia di due antagonisti come ha già fatto ne I DUELLANTI e ne IL GLADIATORE.
Oltre ai capi ci sono anche gli eserciti; lo spacciatore Lucas a capo della sua banda e supportato da un buon numero di poliziotti corrotti (sublime Josh Brolin), Roberts a capo dei giusti, duri e puri.
Tentativo di cinema d'intrattenimento colto, sullo sfondo la guerra del Vietnam con tutti gli interessi che ruotano intorno al conflitto, interessi politici e criminali che muovono fiumi di dollari.
Peccato che la vita del ghetto, la vita squallida dei tossici "duri", non siano rappresentate in maniera adeguata e che la guerra del Vietnam, rimanga solo abbozzata.
Il film si mantiene sulla superficie delle cose, R. Scott preferisce puntare sulle intrpretazioni del grande cast piuttosto che su una messa in scena più aderente alla realtà.
Ottimo per gli occhi forse un pò meno per il cuore.
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Film Telecomandati,
recensioni
venerdì, febbraio 15, 2013
Blue Valentine
Blue Valentine
di Derek Cianfrance
con Ryan Gosling, Michelle Williams
Usa 2010
durata, 120
L'inizio e la fine: gli antipodi in questione appartengono di diritto all'ultimo lavoro di Derek Cianfrance dedicato alla parabola amorosa di Dean e Cindy, coppia sposata con prole alle prese con le conseguenze dell'amore. Avendo a che fare con un argomento a rischio per l'overdose espositiva ma anche per l'impossibilità di imbrigliare una materia in continuo divenire, Cianfrance evita di impantanarsi in inutili spiegazioni e decide di far parlare i fatti.
Con apparente distacco filma la progressione emotiva sfruttando l'impianto di una sceneggiatura che mette a confronto due diversi stati d'animo: da una parte la scintilla che fa saltare il banco, la musica che ti fa ballare quando meno te lo aspetti, per dirla con le parole di Dean, dall'altra la claustrofobia di un unisono che continua ad essere tale pur non avendone più le caratteristiche. Le schermaglie del primo incontro, i baci rubati alla routine esistenziale si incastrano con le richieste ossessive di una ragione che non sa spiegare l'improvviso cambiamento: rarefazione contro saturazione. Uno scontro a nervi scoperti radiografato da un entomologo abituato a lavorare con la realtà.
Un espediente per nulla originale quello di legare in un continum filmico gli antipodi della condizione amorosa ma sicuramente funzionale a riscaldare un lavoro che altrimenti risulterebbe troppo asettico. La lucidità dello sguardo, con immagini che sembrano il frutto di un pedinamento ragionato, deve fare i conti con il contrasto delle loro associazioni, con il cortocircuito prodotto dalla visione di due persone che sembrano amarsi e odiarsi senza soluzione di continuità.
Le contrazioni temporali diventano allora lo strumento per disfarsi di tutto ciò che sta in mezzo, della metamorfosi che dilata le distanze, del tempo che uccide le persone, quello in cui solitamente si cercano le cause del decesso. In Blue Valentine non c'è posto per le cose superflue, per spiegazioni che non esistono mai. Sapere non cambierà la stato delle cose.
La solitudine fissata all'inizio ed alla fine del film, con la bambina che manifesta la paura di un improvvisa sparizione, e l'ombra di un uomo una volta felice ed ora ripreso di spalle mentre si allontana sconsolato, sono le uniche cartoline possibili di una metafisica che appartiene alla nostra modernità.
Presentato nei festival che contano, "Blue Valentine" si avvale della presenza di due attori in stato di grazia come Ryan Gosling, reduce da un'altra grande interpretazione nel prossimo "All good things" e qui perfetto nella rappresentazione di un homo faber capace di incassare i colpi del destino e ripartire con lo spirito di prima, e Michelle Williams, minuta nel corpo ma gigantesca nello spirito, e per questo ruolo candidata all'Oscar come miglior attrice protagonista; è la loro disponibilità unita ad un talento genuino a portare dentro la storia quelle tracce di vita amorosa che permettono al film di restare impresso negli occhi e nel cuore dello spettatore.
(pubblicato su ondacinema.it)
di Derek Cianfrance
con Ryan Gosling, Michelle Williams
Usa 2010
durata, 120
L'inizio e la fine: gli antipodi in questione appartengono di diritto all'ultimo lavoro di Derek Cianfrance dedicato alla parabola amorosa di Dean e Cindy, coppia sposata con prole alle prese con le conseguenze dell'amore. Avendo a che fare con un argomento a rischio per l'overdose espositiva ma anche per l'impossibilità di imbrigliare una materia in continuo divenire, Cianfrance evita di impantanarsi in inutili spiegazioni e decide di far parlare i fatti.
Con apparente distacco filma la progressione emotiva sfruttando l'impianto di una sceneggiatura che mette a confronto due diversi stati d'animo: da una parte la scintilla che fa saltare il banco, la musica che ti fa ballare quando meno te lo aspetti, per dirla con le parole di Dean, dall'altra la claustrofobia di un unisono che continua ad essere tale pur non avendone più le caratteristiche. Le schermaglie del primo incontro, i baci rubati alla routine esistenziale si incastrano con le richieste ossessive di una ragione che non sa spiegare l'improvviso cambiamento: rarefazione contro saturazione. Uno scontro a nervi scoperti radiografato da un entomologo abituato a lavorare con la realtà.
Un espediente per nulla originale quello di legare in un continum filmico gli antipodi della condizione amorosa ma sicuramente funzionale a riscaldare un lavoro che altrimenti risulterebbe troppo asettico. La lucidità dello sguardo, con immagini che sembrano il frutto di un pedinamento ragionato, deve fare i conti con il contrasto delle loro associazioni, con il cortocircuito prodotto dalla visione di due persone che sembrano amarsi e odiarsi senza soluzione di continuità.
Le contrazioni temporali diventano allora lo strumento per disfarsi di tutto ciò che sta in mezzo, della metamorfosi che dilata le distanze, del tempo che uccide le persone, quello in cui solitamente si cercano le cause del decesso. In Blue Valentine non c'è posto per le cose superflue, per spiegazioni che non esistono mai. Sapere non cambierà la stato delle cose.
La solitudine fissata all'inizio ed alla fine del film, con la bambina che manifesta la paura di un improvvisa sparizione, e l'ombra di un uomo una volta felice ed ora ripreso di spalle mentre si allontana sconsolato, sono le uniche cartoline possibili di una metafisica che appartiene alla nostra modernità.
Presentato nei festival che contano, "Blue Valentine" si avvale della presenza di due attori in stato di grazia come Ryan Gosling, reduce da un'altra grande interpretazione nel prossimo "All good things" e qui perfetto nella rappresentazione di un homo faber capace di incassare i colpi del destino e ripartire con lo spirito di prima, e Michelle Williams, minuta nel corpo ma gigantesca nello spirito, e per questo ruolo candidata all'Oscar come miglior attrice protagonista; è la loro disponibilità unita ad un talento genuino a portare dentro la storia quelle tracce di vita amorosa che permettono al film di restare impresso negli occhi e nel cuore dello spettatore.
(pubblicato su ondacinema.it)
giovedì, febbraio 14, 2013
Re della TERRA SELVAGGIA
Re della Terra Selvaggia
di Benh Zeitlin
con Dwight Henry, Quvenzhané Wallis
Usa 2012
durata, 92
Opera prima, pluripremiata, di Benh Zeitlin il film "Re della terra selvaggia" ci apre uno scenario poco conosciuto nelle sue problematiche,
ispirandosi ad una fonte letteraria teatrale molto
poetica e concettualmente ricca di Lucy Alibar, che
il regista ha ampliato e contaminato con un profondo realismo, rendendo così
possibile l’elaborazione cinematografica dei temi in una certa ambientazione. Siamo nel sud della Louisiana,
nel delta del Mississippi, che è frequentemente battuto da tempeste portatrici
di distruzione e che rendono difficile la vivibilità, ma gli abitanti nativi sono
fieri e decisi a insistere in una sfibrante lotta per
la sopravvivenza in condizioni di povertà, precarietà degli alloggi e di tutto lo stile
di vita ove anche il cibo, inizialmente più che sufficiente per la presenza di vegetazione,
animali, e soprattutto di pesce, comincia a scarseggiare. Chiamati anche” quelli
della grande vasca”, questa figure di ogni età si arrabattano,
solidali, a non mollare e tra loro c’è Hushpuppy, una
bambina di 6 anni con solo il papà, Wink, già malato
ma ancora valido, che la sottopone a prove durissime per la sopravvivenza e
autonomia, anche perché egli non potrà
esserci ancora a lungo e, nonostante i
modi rudi, la ama immensamente. Hushpuppy e Wink non sono attori professionisti, ma la bambina
soprattutto, che fa anche da voce narrante, mostra un talento recitativo non comune e non è
difficile per lo spettatore intravedere in lei, ciò che il padre le ripete
continuamente che dovrà essere, il futuro capo del gruppo che arriverà allo
stremo e dovrà spostarsi. Con piglio autoritario, mentre si
organizza la vita comune. Hushpuppy accudisce il padre sempre più malato, che le somministra pillole di
saggezza e cultura religiosa di rispetto e unità del tutto, quasi di tipo panteistico. Il
piccolo essere cresciuto per forza specialmente nel carattere, è quasi irreale
e non è tanto amabile quanto autorevole, ma dà un brivido di emozione
quando, con la naturalezza che cui gestisce gli animali, fa le faccende e si
procura da mangiare, dà fuoco al corpo senza vita del padre, che navigherà al
largo nel contenitore che era la loro barca, ringoiandosi le lacrime (“non si
deve piangere “ha detto papà Wink, e “si deve lottare
contro i nemici invisibili” fino a non averne paura ed anche questo è stato
fatto provocando con il solo fiero sguardo la sottomissione dei mitici Aurochs, belve gigantesche e feroci che
mangiavano i bambini con le loro zanne affilate, usciti dai ghiacci i cui erano congelati dopo l’ultima tremenda tempesta). In bilico tra realtà e fantasia, sottolineato da musiche roboanti e a tratti solenni come gli eventi naturali, oppure folcloristiche, il racconto di questo popolo e di questo angolo di terra, che la voce della bambina arricchisce di commenti, è un’esperienza visiva e mentale non facile ma di grande impatto e di spinta alla lotta e alla reazione positiva verso le difficoltà imposte continuamente dalla vita. .Un’opera prima di grande successo lascia facilmente il punto interrogativo su cosa seguirà e speriamo che l’autore ne abbia già un’idea.
mangiavano i bambini con le loro zanne affilate, usciti dai ghiacci i cui erano congelati dopo l’ultima tremenda tempesta). In bilico tra realtà e fantasia, sottolineato da musiche roboanti e a tratti solenni come gli eventi naturali, oppure folcloristiche, il racconto di questo popolo e di questo angolo di terra, che la voce della bambina arricchisce di commenti, è un’esperienza visiva e mentale non facile ma di grande impatto e di spinta alla lotta e alla reazione positiva verso le difficoltà imposte continuamente dalla vita. .Un’opera prima di grande successo lascia facilmente il punto interrogativo su cosa seguirà e speriamo che l’autore ne abbia già un’idea.
di AdeleH
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recensioni
mercoledì, febbraio 13, 2013
Film in sala dal 14 Febbraio 2013
PROMISED LAND
di Gus Van Sant
con Matt Damon, John Krasinski, Tim Guinee, Frances McDormand
Drammatico 106 min - USA 2012
QUATTRO NOTTI DI UNO STRANIERO
Quatre nuits d'un étranger
di Fabrizio Ferraro
con Marco Teti, Caterina Gueli Rojo
Drammatico 90 min - FRA/ITA 2013
NOI SIAMO INFINITO
The Perks of being a Wallflower
di Stephen Chbosky
con Logan Lerman, Emma Watson, Paul Rudd, Ezra Miller, Nina Dobrev
Drammatico 103 min - USA 2012
DIE HARD - Un buon giorno per morire
A Good Day to Die Hard
di John Moore
con Bruce Willis, Jai Courtney
Azione 96 min - USA 2013
BLUE VALENTINE
di Derek Cianfrance
con Michelle Williams, Ryan Goslin
Drammatico 114 min - USA 2010
IL PRINCIPE ABUSIVO
di Alessandro Siani
con Alessandro Siani, Sarah Felberbaum, Christian De Sica, Serena Autieri, Marco Messeri
Commedia 103 min - ITA 2013
LA MIA MAMMA SUONA IL ROCK
di Massimo Ceccherini
con Massimo Ceccherini, Lallo Circosta, Cristina del Basso
Commedia 90 min - ITA 2013
VIVA LA LIBERTA'
di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Anna Bonaiuto, Michela Cescon
Drammatico 94 min - ITA 2013
di Gus Van Sant
con Matt Damon, John Krasinski, Tim Guinee, Frances McDormand
Drammatico 106 min - USA 2012
QUATTRO NOTTI DI UNO STRANIERO
Quatre nuits d'un étranger
di Fabrizio Ferraro
con Marco Teti, Caterina Gueli Rojo
Drammatico 90 min - FRA/ITA 2013
NOI SIAMO INFINITO
The Perks of being a Wallflower
di Stephen Chbosky
con Logan Lerman, Emma Watson, Paul Rudd, Ezra Miller, Nina Dobrev
Drammatico 103 min - USA 2012
DIE HARD - Un buon giorno per morire
A Good Day to Die Hard
di John Moore
con Bruce Willis, Jai Courtney
Azione 96 min - USA 2013
BLUE VALENTINE
di Derek Cianfrance
con Michelle Williams, Ryan Goslin
Drammatico 114 min - USA 2010
IL PRINCIPE ABUSIVO
di Alessandro Siani
con Alessandro Siani, Sarah Felberbaum, Christian De Sica, Serena Autieri, Marco Messeri
Commedia 103 min - ITA 2013
LA MIA MAMMA SUONA IL ROCK
di Massimo Ceccherini
con Massimo Ceccherini, Lallo Circosta, Cristina del Basso
Commedia 90 min - ITA 2013
VIVA LA LIBERTA'
di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Anna Bonaiuto, Michela Cescon
Drammatico 94 min - ITA 2013
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film in uscita 2013
Studio illegale
Studio illegale
di Umberto Carteni
con Fabio Volo, Zoe Felix, Ennio Fantastichini
Ita, 2013
durata 90
Era il 1991 quando Brett Easton Ellis pubblicò dopo molte controversie l'atto d'accusa nei confronti di una generazione, quella degli anni 80,omologata e superficiale. In quel libro, e poi in parte nell'omologo film di Mary Harron (American Psycho, 2000) a farla da protagonista era l'idea di una società trasfigurata dal consumo degli oggetti che finivano per sostituire le identità di essere umani riconoscibili non in quanto persone ma come portatori di griffe e di tendenze. Una delle caratteristiche più lampanti del libro e pure del film, era l'impossibilità da parte dei personaggi di collegare anche solo per un momento il volto dell'interlocutore con il nome e la storia di chi vi stava dietro. Da cui una serie d'equivoci divertenti, ed anche macabri, che però riuscivano a materializzare la nevrosi di un passaggio per certi versi epocale. A vent'anni di distanza, e dopo una serie di stravolgimenti anticipati da quella visione, torna a farsi viva, non senza ragione visti i tempi, la sensazione di un vuoto pneumatico espresso con tic, manie e difficoltà relazionali non lontane da quelle che Ellis "catalogava" nel suo libro. A portarla sullo schermo con un'operazione simile al modello di riferimento ma con molti meno problemi dal punto di vista produttivo è Umberto Carteni (Diverso da chi?, 2009) che traduce per immagini le parole di Federico Baccomo "Duchesne", blog scrittore assurto a successo con ben due libri appaltati per il cinema (il secondo dovrebbe diventare un film con Bisio). Un parallelismo che Carteni non perde tempo a ratificare, dopo averci sorpreso con l'ultimo atto di un suicidio a suo modo sorprendente. Siamo infatti ad inizio film, con la figura ed il faccione di Fabio Volo, apripista necessario per farci entrare nella storia con animo predisposto ad una certa leggerezza. Ed invece no, perché quel salto nel vuoto, spiazzante e mortale, appartiene al collega di stanza di Andrea Cambi (Volo), avvocato rampante e playboy incallito, da lì in avanti costretto a fare i conti con il cinismo della sua e dell'altrui esistenza.
Uno scarto esistenziale che si completa nella scena successiva dove uno sbigottito Andrea assiste al discorso di commiato di Giuseppe, boss cinico e mellifluo - un Ennio Fantastichini trasfigurato negli eccessi del suo personaggio - che approfitta dell'occasione per incitare i presenti ad onorare il defunto riprendendo a lavorare con rinnovato accanimento. Come in Ellis quindi, la morte assume fin da subito tratti grotteschi, e soprattutto laterali rispetto alle regole dei rituali collettivi. C'è lo dice l'inserto che seguirà di lì a poco, con un fashion party che è insieme luogo deputato da Cambi per rimorchiare avvenenti fanciulle, ed allo stesso tempo quintessenza di un acquario sociale dove il regista mette in mostra i freaks contemporanei. Un inizio promettente, per certi versi spiazzante, che però deve fare i conti con l'incipit del film, ovvero la presa di coscienza del protagonista, assente in Ellis, con un ritorno alla vita testimoniato dall'innamoramento per la collega francese, controparte legale dell'azienda farmaceutica di cui Cambi deve seguire l'acquisizione per conto di un potente sceicco. Una piega per certi versi prevedibile, vista la presenza di Volo, ormai abbonato a ruoli da figliol prodigo, e per le esigenze di un prodotto che non vuole discostarsi per motivi di profitto dal clichè buonista e molto consolatorio di certa commedia italiana, pronta a tutto pur di salvare in calcio d'angolo i suoi pargoli e le loro malefatte (il finale, con l'ammiccamento di Volo allo spettatore ne è prova lampante e per certi versi agghiacciante).di Umberto Carteni
con Fabio Volo, Zoe Felix, Ennio Fantastichini
Ita, 2013
durata 90
Era il 1991 quando Brett Easton Ellis pubblicò dopo molte controversie l'atto d'accusa nei confronti di una generazione, quella degli anni 80,omologata e superficiale. In quel libro, e poi in parte nell'omologo film di Mary Harron (American Psycho, 2000) a farla da protagonista era l'idea di una società trasfigurata dal consumo degli oggetti che finivano per sostituire le identità di essere umani riconoscibili non in quanto persone ma come portatori di griffe e di tendenze. Una delle caratteristiche più lampanti del libro e pure del film, era l'impossibilità da parte dei personaggi di collegare anche solo per un momento il volto dell'interlocutore con il nome e la storia di chi vi stava dietro. Da cui una serie d'equivoci divertenti, ed anche macabri, che però riuscivano a materializzare la nevrosi di un passaggio per certi versi epocale. A vent'anni di distanza, e dopo una serie di stravolgimenti anticipati da quella visione, torna a farsi viva, non senza ragione visti i tempi, la sensazione di un vuoto pneumatico espresso con tic, manie e difficoltà relazionali non lontane da quelle che Ellis "catalogava" nel suo libro. A portarla sullo schermo con un'operazione simile al modello di riferimento ma con molti meno problemi dal punto di vista produttivo è Umberto Carteni (Diverso da chi?, 2009) che traduce per immagini le parole di Federico Baccomo "Duchesne", blog scrittore assurto a successo con ben due libri appaltati per il cinema (il secondo dovrebbe diventare un film con Bisio). Un parallelismo che Carteni non perde tempo a ratificare, dopo averci sorpreso con l'ultimo atto di un suicidio a suo modo sorprendente. Siamo infatti ad inizio film, con la figura ed il faccione di Fabio Volo, apripista necessario per farci entrare nella storia con animo predisposto ad una certa leggerezza. Ed invece no, perché quel salto nel vuoto, spiazzante e mortale, appartiene al collega di stanza di Andrea Cambi (Volo), avvocato rampante e playboy incallito, da lì in avanti costretto a fare i conti con il cinismo della sua e dell'altrui esistenza.
In questo modo, seguendo un canovaccio in cui per arrivare al lieto fine c'è bisogno della dovuta dose di gioie, equivoci ed anche dolore, "Studio illegale" smarca velocemente qualsiasi istanza riferibile al grottesco sociale (a parte l'espediente messo in bocca a Giuseppe, imperterrito nel confondere i nomi dei suoi interlocutori) per imbarcarsi nell'ennesima storia di sentimenti feriti, di buone intenzioni mascherate dal solito gallismo italico, e poi dall'immancabile ritratto di una compagine maschile eternamente afflitta da sindrome infantile. Confezionando la storia con un'aria vagamente retrò non solo per la mise dei protagonisti - lui con affetti e capelli all'indietro sembra uscito fuori da un film di Pietro Germi, mentre lei viso aguzzo e gonne ad altezza ginocchio a ricordare la moda a cavallo dei 60 - ma anche per una fotografia calda e malinconica, le cui sfumature dorate ed anche certi inserimenti musicali sembrano alludere ad atmosfere di un periodo che fu, Carteni da vita ad un prodotto che nella sostanza è ripiegato sulla presenza della sua star, e che per questo riduce tutto il resto a cominciare dall' alter ego femminile, bidimensionale perchè sviluppato solo come pretesto per scatenare le contraddizioni di quello maschile, a mero accessorio. Intriso d'apparente solitudine, ma in realtà ancorato felicemente ad un individualismo sfrenato, evidenziato dal fatto che tutti indistintamente mentono sapendo di mentire - anche il nuovo arrivato interpretato da Nicola Nocella si adegua subito all'andazzo - "Studio illegale" attraverso il tema della menzogna vorrebbe rimandare ad un altrove che però non esiste neanche per un momento tanto è scoperta, e per niente stratificata la descrizione del presunto nascosto dei vari personaggi.
Ed è un peccato che Fabio Volo, a differenza di un attore splendidamente dilettante ma dall'esperienza professionale ben più variegata come Valerio Mastandrea, non riesca a rischiare un pò di più sfruttando i vantaggi del momento per offrirsi varianti capaci di sviluppare la naturale confidenza ad apparire. In questo caso si registra solo un colpo a vuoto, suo e pure del film.
(pubblicato su ondacinema.it)
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italia,
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martedì, febbraio 12, 2013
Zero Dark Thirty
Zero Dark Thirty
di Katherine Bigelow
con Jessica Chastain
Usa 2012
durata, 139
ZERO DARK THIRTY, orario notturno delle 0.30 in gergo
militare, quello dell’ultima missione, è la cronaca impeccabile nello
stile del film-reportage, nobilitato dal talento di Kathryn
Bigelow, dei dieci anni di caccia all’uomo più
ricercato della storia moderna Osama bin Laden, a partire da tragiche
testimonianze in solo audio a schermo nero delle vittime dell’attacco alle Torri
Gemelle l’11 settembre 2001. La Bigelow, in stretta e
rodata collaborazione con Mark Boal,
corrispondente di guerra, dopo aver raccolto con cura documentazioni fondate, ha
creato una sceneggiatura racconto vivente di quanto può essere accaduto,
avvalendosi di una capacità di montaggio delle riprese, con modalità adatte alle
circostanze, dalle classiche in interni con una fotografia magnifica, a quelle con
camera a spalla, mosse e sporcate dal pulviscolo atmosferico o dalla fitta polvere
di certi ambienti, fino alla
meraviglia delle lunghe sequenze di notte fonda sfocate e con luce verdastra, quella
degli infrarossi di cui erano dotati i Navy Seals per l’impresa
decisiva. In un inarrestabile
crescendo, che lentamente coinvolge anche il più distratto spettatore, affiora
l’operato di un manipolo di agenti della CIA in Afghanistan, che in segreto si sono
adoperati a raccogliere le informazioni che potessero
condurre al famoso personaggio, fino ad
usare torture atroci,ormai considerate di utilità discutibile e vietate per
motivi etici, intercettazioni su numeri telefonici così ottenuti, mentre i continui
attentati con molte vittime civili e militari non facevano che esasperare gli animi e spingere
sempre più alla cattura. I capi dell’Intelligence in America volevano prove sicure, e solo nel maggio 2011, quando si sono
convinti con foto, filmati, e visioni dirette che probabilmente era stata
identificata la grossa costruzione dove Bin Laden poteva essere nascosto, in Pakistan, con un fremito di emozione generale
è stata presa la decisione di attaccare. A questo si è giunti anche, se non
soprattutto, per la tenacia e l’insistenza di un agente speciale della CIA, una
giovane donna bionda e delicata di fattezze ma con i nervi d’acciaio, che è sempre
stata presente
senza demordere mai dalle sue convinzioni e richieste, sola contro tutti. Il
suo nome, Maya, è di fantasia, le sue generalità sconosciute e il personaggio,
forse un po’romanzato,
lotta con la sofferta compostezza espressa dalla giovane attrice Jessica Chastain, cosi incisiva
e sincera da meritarsi una nomination
all’Oscar. Solo alla fine, vincente ma più che mai sola in un grande aereo, che
la riporta a casa, si permette una lacrima liberatoria, ma anche di smarrimento
per la deprivazione del suo costante obiettivo, distruggere per il suo paese e
per il mondo Osama Bin Laden, che da poco aveva riconosciuto nel cadavere
contenuto in una custodia e alla cui uccisione aveva assistito in diretta
attraverso un video. Qui Kathryn Bigelow allenta il controllo
sulle emozioni e fa anche omaggio al manipolo che ha compiuto la difficile
impresa, resa nel racconto con maestria insuperabile. Al di
là delle parole di chi ne scrive, il film va visto come parte della
Storia e grande cinema in continuo rinnovamento.
di AdeleH
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