di Tim Burton
con Christoph Waltz, Amy Adams
Usa, 2014
genere, biografico
durata, 106'
Se c'è una cosa
che distingue il cinema d'autore da quello realizzato su commissione, è
la presenza di un punto di vista, quello del regista, che rende certi
film diversi e insieme unici. Ci sono poi autori talmente bravi da
riuscire a scivolare dentro le forme del cinema commerciale e
d'intrattenimento, mantenendo inalterate le proprie peculiarità. Giochi
di prestigio che, nel caso di Tim Burton, diventano per la maggior parte
delle volte una gioia per gli occhi prima ancora che del cuore; come
testimoniato dal successo di film sul tipo de "La fabbrica del
cioccolato" e "Alice in Wonderland", debitori di una fama derivata
principalmente dalla fantasia e dalla meraviglia dell'apparato visivo.
Ecco
allora che un'opera come "Big Eyes", basata esclusivamente sulla
biografia di persone realmente esistite, sembra porsi in antagonismocon
l'ultimo cinema del regista americano. L'evidenzadi ciò la si trova
principalmente nella scelta di Burton di rinunciare (per la seconda
volta dopo "Ed Woods") all'elemento fantastico per dare spazio al
realismo di una vicenda che prende in considerazione fatti e personaggi
che appartengono alla Storia del paese. E poi di parlane nel modo più
classico, realizzando una biografia filmata dei coniugi Keane, artisti
di successo passati gli annali della cronaca per lo scandalo provocato
dalla scoperta che i ritratti dei bambini dai "grandi occhi" - da cui il
Big Eyes del titolo - firmati da Walter Keane, in realtà erano stati
dipinti dalla moglie Margaret. Ma a differenza di altre cinebiografie attualmente nelle sale - da "Imitation Game a "La teoria del tutto" - quella di "BIg Eyes" non si preoccupa esclusivamente di illustrare i fatti della Storia ma piuttosto di farli convivere con un universo parallelo, quello del regista, popolato come sempre accade nei film di Burton da personaggi di un eccentricità al limite del grottesco (Il Walter Keane di Christoph Waltz potrebbe essere un clone dellà Ed Wood di J Deep), paesaggi iperreali (Gli States di Bruno Delbonell sembrano la fotografia di una società di plastilina) e figure di celestiale ingenuità, come lo è la Margaret interpretata da una straordinaria Amy Adams, novella Alice di un paese meraviglie.
In questo modo più che la vicenda nel suo complesso, organizzata per tappe successive abbastanza prevedibili, a interessare è l'inserimento di quelle zone d'ombra che deviando dal nucleo narrativo del film, si rivolgono a territori liminali: come lo è certamente il discorso il discorso sulla perdita dell'innocenza di Margaret, prima tradita ma poi complice dei misfatti del marito - messa in corrispondenza con quella di una nazione che, con meccanismi simili a quelli descritti da Robert Redford in "Quiz Show", si scopre improvvisamente meno bella di quella che si credeva. Ed a cui appartiene anche la riflessione sull''arte come espressione di un'urgenza naturale oppure di un pianificazione paritetica agli altri prodotti di consumo, resa nel film attraverso l'incontro/scontro dei due protagonisti. E finanche la catarsi finale, perfetta per un film che si rivolge al grande pubblico e allo stesso tempo allusiva di una libertà, personale e d'artista, che dopo tanti kolossal blockbuster, il Tim Burton di "Big Eyes" si è ripreso con gli interessi.
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