“Il sistema Pixar”
di: C.Uva
editore: Il Mulino
pagg. 183, € 13
editore: Il Mulino
pagg. 183, € 13
“Where is the monument
to the dreams we forget ?”
- Foo Fighters -
to the dreams we forget ?”
- Foo Fighters -
Quando R.Eugeni ne “La condizione postmediale” osserva che la proliferazione di mondi epici autoconclusi, totalizzanti e coerenti nonostante (e anzi proprio in ragione de) la loro proliferazione su piattaforme e canali differenti, rimanda a un carattere complessivo della condizione postmediale: il suo essere attraversata da grandi racconti trasversali, linee di forza che ne mettono in scena le dinamiche profonde e donano un senso alla altrimenti incontrollata e insensata proliferazione di pratiche e dispositivi, introduce un’argomentazione sensata come gravida di ripercussioni, nonché pone, velatamente, un interrogativo chiave circa il senso e il ruolo di quei soggetti in grado di mobilitare - di pari passo con gli avanzamenti tecnologici - energie materiali e patrimoni d’ingegno tali da sollecitare con costanza gli orientamenti di ciò che siamo soliti definire col termine d’immaginario collettivo.
Per ciò che gli consta e dal suo punto di vista “Il sistema Pixar”, scritto da Christian Uva per i tipi deIl Mulino, ragiona intorno alle possibilità e alle contraddizioni suscitate da quel quesito, ponendo al centro della sua disamina l’avventura creativa e produttiva della celebre fucina di Emeryville (Contea di Alameda, Ca). Nello specifico e in primis, la fiducia da lei riposta fin da subito (e alimentata con l’incessante introduzione di soluzioni innovative) nella Tecnica. Così l’animo, allo stesso tempo pionieristico e intriso di una nostalgia mai priva di memoria, in grado di indurre all’equilibrio, senza inibire salutari frizioni, topoi celebri della visione-americana-del-mondo, in una forma se non sempre coerente di per sé foriera di conseguenze secondo la celebre formula di Baudrillard (ripresa da Uva) per cui la coabitazione dei contrasti è il disegno classico dell’America. Un generalizzato atteggiamento lungimirante, si potrebbe dire, mirato a tenere insieme il vitalismo della spinta individualista e la ricerca dell’armonia nella dimensione di un nuovo patto collettivo come emblema stilizzato dell’eterna tensione del Grande Paese tra provincialismo e cosmopolitismo. Quindi ancora l’esplorazione di orizzonti altri in potenza utili allo scopo di rivitalizzare l’esausto mito della Frontiera (morto nel 1890, quando tutti gli angoli del paese dall’Atlantico al Pacifico sono stati scoperti, misurati e lottizzati - pag. 114 -), a mo’ tanto di spazi aperti proiettati verso il futuro, quanto di ripensamento ed eventuale riconfigurazione dei più vari percorsi esistenziali, e le prospettive di colonizzazione dell’immaginario di massa rese esperibili da un inedito assemblaggio tra indubbia inventiva, applicazione serrata sul versante tecnico tesa ad avvalersi di un rinnovato interesse per la manualità nei processi di realizzazione delle singole opere, ampliamento e/o adattamento dei materiali narrativi (ecco i grandi racconti trasversali ricordati da Eugeni) e oculatezza affaristica. E, parimenti, un qual desiderio, sia magicamente fanciullesco che profondamente fiducioso, di riscrivere - estendendolo, dal punto di vista estetico, migliorandolo, in altre parolepotenziandolo - il presente, a partire dalle istanze libertarie e anti-sistema maturate da quelle controculturali degli anni Sessanta del secolo scorso ma assecondando di concerto pulsioniconservatrici (fornendo a esse, a ben vedere e per certi versi, ulteriori giustificazioni ex post), come che sia in sostanziale continuità col modello capitalistico imperante, inclusi tutti gli addentellati relativi allo sfruttamento sulla più vasta scala d’ogni possibilità d’espansione e consolidamento di posizioni di mercato divenute poi, con gli anni, effettivamente dominanti…
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Discorso a parte merita poi, in un contesto nel complesso consequenziale e accurato - sebbene non esente da talune pesanti leggerezze (queste, di certo, sottoprodotto tossico dei tempi, tipo una punteggiatura qua e là discutibile; la presenza di anglismi oltre l’ambito tecnico d’elezione: una qual indulgenza concessa al mai troppo vituperato posizionare/-ato, solo per citare le più evidenti) - l’epifania alterna ma sempre coinvolgente in foggia di ricorsivo saggio-nel-saggio (formula in parte reiterata per Cars, Wall.e e Gli Incredibili), di Toy Story, lungometraggio Pixar d’esordio (1995), sorta d’epitome interna d’un intero mondo e pietra angolare attraverso cui leggere in filigrana le tracce d’una trama costante e più grande, i molteplici riferimenti ideali e culturali, le riflessioni su tempo, luogo e identità, il retrogusto malinconico, lo slancio umano-troppo-umano di edificare o ritrovarecasa, le sforzo di composizione delle ambivalenze politiche, l’accortezza dedicata ai temi e ai toni con un occhio al rigore stilistico-espressivo e l’altro alla chiarezza e alle opportunità remunerative: ogni cosa a fluire, a confliggere, a rimescolarsi nella variegata comunità di tecnici e artisti non solo californiani operanti nel colosso di Lasseter, Catmull, Ray Smith e soci. E ciò in virtù di sistematiche quanto impercettibili suture operate da Uva per tenere assieme i piani analitico e sentimentale, di preferenza dove entrambi si combinano più alla ricapitolazione storica degli eventi salienti che hanno giocato un ruolo decisivo nell’ascesa e nell’imporsi di quella che - se la Marvel è nota anche come casa delle idee - può a buon diritto vedersi attribuire l’esergo di casa delle meraviglie, di quanto non s’allineano all’analisi puramente scientifica, accorgimento che in tali frangenti dona allo scritto quasi le sfumature del romanzo di formazione e il senso favolistico della scoperta di un altrove che si rivela mano mano che le sue peculiarità finiscono sotto la lente d’ingrandimento dell’osservatore e a contatto diretto con la sua sensibilità.
Non resta, quindi, che assecondare idealmente il tragitto immaginativo della Pixar e, in sedicesimo, la scommessa testimoniale dell’autore, non foss’altro per orientarsi meglio nel cuore di questa nostra transizione, estenuazione con mezzi più potenti della mobilitazione totale indicata da Jünger e coincidente, come sottolinea A.Tagliapietra nel suo “Icone della fine”, con l’aspettativa di una qualche innovazione tecnica in continuità con quelle esistenti, guado che produce rappresentazioni del futuro che vanno tutte a confluire nei desideri, apparentemente a buon mercato, della tecnica, dove ogni innovazione è un rimedio che annuncia e attende un altro rimedio… e la trasformazione stessa della società… appare, per altro, sostanzialmente immodificabile nelle sue linee strutturali, nei suoi valori acquisiti e stabilizzati, per cui,immaginare il futuro diventa improvvisamente un esercizio noioso, futile e banale. Esattamente quello che, come visto e fatte le debite proporzioni, tanto “Il sistema Pixar” che i funamboli dell’animazione digitale in carne e ossa sembrano voler scongiurare.
TFK
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