mercoledì, giugno 14, 2017

COGAN - KILLING THEM SOFTLY

Cogan - Killing them softly
di Andrew Dominik 
con: B. Pitt, J. Gandolfini, R. Liotta, S. Mc Nairy
USA 2012 
genere, drammatico
durata, 97’

We're only in it for the money, sghignazzava Zappa ai tempi. Più o meno la conclusione intimata da Jackie Cogan/B.Pitt (congetturale monello chapliniano che crescendo smarrisce una o oltre alla retta via) al termine di questo "Cogan/Killing them softly", terza fatica del neozelandese Dominik, dopo l'esordio di "Chopper" (2000) e le estenuazioni liriche de "L'assassinio di Jesse James..." (2007). Tratto, ma è un’affermazione impegnativa, dal "Cogan's trade" (1974) del poliedrico Charles V. Higgins, già giornalista di nera, ex procuratore distrettuale ammaliato dalla letteratura, il cui "Gli amici di Eddie Coyle" era stato ben portato sullo schermo nel ’73 da P.Yates, con R.Mitchum e P.Boyle come protagonisti, il film in questione compie preliminarmente due operazioni: sposta gli accadimenti in avanti nel tempo - diciamo a ridosso delle elezioni che portano Obama alla Casa Bianca, nel mentre che la morsa della crisi economica comincia a far sentire la sua stretta come rimandano, tipo basso continuo, i teleschermi che punteggiano con i loro notiziari tutta la pellicola - e lateralmente nello spazio, dalle atmosfere umide e ovattate del Mideast letterario a quelle fatiscenti e variopinte d’una fantasmatica New Orleans restituita per accenni e indizi.


Se la storia - la rapina a mano armata compiuta da due balordi ai danni d’una bisca gravitante attorno ai traffici della mala la quale, per non perdere la faccia e nuocere agli affari creando un precedente, mette in moto il Cogan del titolo, killer a libro paga in giaccone di pelle, pizzetto e chioma lisciata all'indietro - è piuttosto semplice, le cose si complicano quando andiamo a valutare l'efficacia della stessa sulla pagina e sullo schermo. Per quanto siano stucchevoli i confronti, stante la diversità dei linguaggi, la sensibilità autonoma di chi scrive e quella di chi dirige, e tentando di superare il logoro binomio "letteratura filmata"/"film tratto da un libro", alcune cose possono comunque essere sottolineate: la scrittura sarcastica, gaglioffa, contraddittoria e spesso paradossale fin quasi alla demenza di Higgins, innanzitutto. Scrittura che ha la capacità, quasi solo a forza di dialoghi, di costruire la vicenda e di darle pregnanza tratteggiando indirettamente ma compiutamente un intero microcosmo costituito perlopiù da mezze tacche, sfigati, inetti e intronati a vari stadi, che più sbattono il grugno contro la realtà del proprio fallimento, più s'ingegnano (eufemismo) a escogitare piani cervellotici per svoltare il cui rischio poi, a conti fatti, si rivela sempre sproporzionato alla resa. Tanto da risultare, quindi, più patetici che tragici, più infantilmente naïf che malignamente consapevoli: più affini, per dire, alla banda di idioti di J.K. Toole che alla conventicola di buzzurri schizzati del "Killer Joe" di Friedkin. In altre parole, più capaci, non tanto di forzare, quanto di dilatare i limiti del genere di riferimento - nel caso, il noir - aprendoli alla parodia, al nonsense, alla commedia dell’assurdo. All’opposto, Dominik sembra percorrere un sentiero sì parallelo ma in senso contrario: ovvero orchestra la messa in scena secondo uno svolgimento orizzontale, sempre indeciso tra l'accelerazione sul versante del grottesco e l’adesione fedele allo spirito sconclusionato del testo originario, finendo per appiattire entrambe le opzioni in una narrazione priva di basi d’immedesimazione, di solidi agganci - stilistici, estetici, emotivi - per chi guarda. Inoltre, quanto la logorrea dei personaggi d’intreccio narrativo èvitalistica, ossia imprevedibile, zeppa di cortocircuiti per i suoi rimandi interni, le ripetizioni, la tendenza a divagare, a-non-dire-niente, in grado cioè di scartare di continuo, di cadenzare un ritmo, tenerlo e variarlo sino alla fine, non la medesima feconda irrequietezza arride alle figure dell’autore di Wellington, spesso bloccate, come costrette a glissare, a stilizzare uno stile - si passi la forzatura - di fatto depauperandolo della sua spinta maggiore, a dire l'accumulo stratificato da Higgins volto a generare una risacca che tutto travolge a mo’ d’unico, insensato sberleffo, e condannandosi, di conseguenza, a girare a vuoto, ad agire secondo un'inerzia che non si trasforma mai davvero in azione.


Il timore ventilato da più parti circa la prosopopea, l'incontinenza verbale riconducibile a certi prototipi tarantiniani, è allora, in “Cogan", scongiurata in partenza. L'esperimento di Dominik, infatti, non è prolisso, tantomeno verboso. Piuttosto è monco: da un lato dell'esplosività controllata del linguaggio del romanzo; dall'altro per la mancanza di soluzioni espressive che non siano risapute (il ralenti dell'eliminazione del personaggio di R.Liotta); ribadite (numerose inquadrature e primi piani tenuti oltre misura); manieristiche (l’accuratezza quasi esornativa della ricostruzione scenografica e l'impianto della scelta cromatica debitore verso intuizioni care al cinema USA anni ’70). Resta un Pitt in parte ma col freno-a-mano-tirato, nel ruolo oramai fin troppo familiare per lui di guascone letale. Resta Gandolfini, altrettanto a suo agio nei panni del sicario afficato e ubriacone a cui dobbiamo un paio di validi assolo, quanto l'insinuazione, questa sul serio maliziosa, per cui in tempi grami pure il crimine organizzato si fa due calcoli e cerca di risparmiare tirando sul prezzo. "Li conosco quelli che vincono" diceva il Cogan di carta. "C'è chi da qualcosa al cavallo e vince. C'è chi da qualcosa a tutti gli altri cavalli, e vince. E poi ci sono quelli che magari drogano i cavalli da una vita e uno o due di loro, forse tre, vincono. Tranne quando i cavalli li droga qualcun altro prima di loro, e vince. A quel punto perdono. Accettano la sfortuna. Non ci pensano più". Appunto. We're only in it for the money. Take it or leave it.
TFK

1 commento:

Francesco ha detto...

Forse una delle poche recensioni che condivido su questo film