Convinti come siamo che il cinema italiano sia diventato una realtà in grado di esprimersi su livelli di qualità che riguardano ogni componente della filiera cinematografica pensiamo sia opportuno valutarne il rendimento con articoli di approfondimento svincolati da ragioni collegate alla stretta attualità. Essendo il primo capitolo di un possibile viaggio sentimentale nel cuore pulsante del nostro cinema abbiamo deciso di iniziare a parlarne con una selezione di lungometraggi che ci permette di fare il punto su alcuni degli esordi più interessanti degli ultimi anni (dal 2012 ai giorni nostri) con una selezione di sette titoli a suo modo rappresentativi delle tendenze messe in campo dalle nuove generazioni di cineasti.
Sponsorizzati dalle stesse categorie (produttori e distributori) che sul finire dei settanta li avevano spinti ai margini del circuito ufficiale, la riscoperta dei prodotti di genere e il crescente interesse del mercato di settore ha ricevuto ulteriore impulso da due debutti che lasciano il segno: quello di Stefano Sollima, figlio d’arte arrivato al successo dopo lunga gavetta e con un film, "ACAB-All Cops Are Bastards" dove il connubio tra l’estetica cinematografica e quella televisiva (media da cui Sollima proviene e dove continua a furoreggiare con le serie di Gomorra e Suburra) da vita a un dispositivo fatto di immagini ad alto impatto emotivo e forte performance cinetica e ancora, di Gabriele Mainetti, capace di sfidare l’industria hollywoodiana con un’opera - "Lo chiamavano Jeeg Robot" - che, muovendosi sulle stesso terreno delle avventure dei super eroi Marvel e DC Comics, riesce a reggere il confronto con il prototipo americano, grazie a un inventiva che compensa il divario di mezzi esistente con il mogol americano. A proposito di queste opere prime vale la pena ricordare due variabili che li distinguono dagli altri titoli presenti in questa lista e che riguardano la possibilità di usufruire di un’ organizzazione promozionale che li sostiene, consentendogli tra l’altro di conquistare le prime pagine dei giornali e di uscire in un buon numero di sale, come pure di alimentare una propaganda divistica che permette di consolidare l’ascesa di alcuni degli attori partecipanti, in particolare di Marco Giallini a Luca Marinelli, da qui in poi, destinati a diventare tra gli interpreti più richiesti dell’intero panorama.
Paradigmatica è invece la prima volta del napoletano Leonardo Di Costanzo, non solo per il curriculum del regista che alla pari di molti colleghi (e per esempio dell’ Alice Rorhwacher di "Corpo Celeste", altro debutto da ricordare) si afferma nel documentario per poi passare al racconto di finzione ma perché L’intervallo è il riuscito esemplare di un cinema deciso a occupare lo spazio del reale con la consapevolezza di non poterne esaurire tutti gli aspetti (è la marginalità psicologica e materiale dei protagonisti a essere messa sotto la lente d’ingrandimento della mdp) ma quantomeno determinato a non tradirne i presupposti ambientali e fenomenologici. In questo stesso contesto si colloca qualche tempo "Vergine giurata" di Laura Bispuri, frutto di una ricerca sul campo (effettuata nel nord dell’Albania dove la legge del Kanun costringe le donne a reprimere la propria sessualità) che la drammaturgia del film trasforma in un percorso di liberazione e di rinascita (di Hana, la giovane albanese interpretata dall’ottima Alba Rorhwacher) comprensivo delle tematiche messe in campo dal dibattito contemporaneo sul gender. Argomento, questo, che monopolizza la vicenda di "Arianna" nella quale il regista Carlo Lavagna, ottimizzando al meglio gli scarsi mezzi finanziari, sceglie di raccontare la diversità (sessuale) della sua protagonista (la debuttante Ondina Quadri) con i toni intimisti e onirici di un romanzo di (de)formazione giovanile.
Per certi versi sorprendente è invece il tragitto compiuto dagli ultimi due titoli selezionati in questo articolo. Un po' perché in entrambi i casi si parla di opere passate quasi inosservate al grande pubblico, come accade a "Salvo", opera prima di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia distribuito - poco e male - solo a seguito della vittoria alla La semaine de la critique di Cannes, oppure, al contrario, ingiustamente vituperate dagli addetti ai lavori, com’è capita a Piero Messina, autore del "L'attesa", aspramente criticato all’indomani della sua anteprima nel concorso veneziano, un po' per l’eccezionalità di una messinscena che, partendo da luoghi e temi tipici della cultura siciliana, disegna un altrove fatto di commistione di generi (Salvo, costruito con gli stilemi del western e del noir metropolitano) così come di epifanie sacre e profane che nel cinema di Messina si caricano di una sensualità misteriosa e conturbante.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)
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