SEVEN
di David Fincher
con Brad Pitt, Morgan Freeman, Gwyneth Paltrow
Usa, 1995
genere, thriller
durata 127'
A fronte di un'autorialità ormai riconosciuta, le considerazioni su
David Fincher hanno subito nel corso del tempo oscillazioni di segno
contrario equamente divise tra chi, soprattutto all'inizio della
carriera, lo ha considerato come la quintessenza dell'industria
hollywoodiana, abile manipolatore d'immagini ed eccellente esecutore, e
quelli che invece hanno visto nelle sue qualità tecniche il punto di
partenza di un progetto capace di esprimere una riflessione sulla nostra
contemporaneità. A pagare dazio è stato dapprima un pedigree più commerciale che artistico, derivato dalla direzione di videoclip musicali per cantanti del calibro di Madonna, Sting, Rolling Stones o
di spot televisivi per la Nike e la Coca Cola. In seconda istanza la
tendenza a rappresentare la violenza, uno dei temi più ricorrenti del
suo cinema, attraverso un divismo e una bellezza estetica capace di
esaltare, a detta dei suoi detrattori, una spettacolarità ambigua ed
imitativa. Due attributi riveduti e corretti ma a suo tempo sufficienti a
far entrare in circolo il sospetto di un cinema fatuo ed utilitaristico
che, alla pari di quello di Clint Eastwood (la violenza) e Ridley Scott (estetica
da videoclip), ha goduto inizialmente di scarsa fama nei salotti che
contano, salvo poi, è il caso di Fincher, riguadagnare posizioni grazie
alla legittimazione ottenuta attraverso il web, dove i suoi film vengono
accolti e giudicati con le precauzione e i parametri solitamente
applicati alle personalità del cinema contemporaneo, a cui di fatto il
regista di Denver in questo momento appartiene. Ecco che allora un film
come "Seven", opera seconda realizzata nel 1995, appare più di altre
adatta a rappresentare le dichiarazioni di intenti e le traiettorie
interne a un sistema di riferimento che ha nel cinema di genere, in
questo caso la crime story declinata in tutte le sue
possibilità (il poliziesco, il thriller, il mystery), una struttura
all'interno della quale trovano posto temi e stilemi del cinema
fincheriano.
Ma andiamo con ordine e soffermiamoci sulla forma
del thriller noir a cui "Seven" aderisce nel rispetto delle
convenzioni, raccontando di una corsa contro il tempo per impedire ad un
serial killer, John Doe (Kevin Spacey), di portare avanti il suo piano
omicida. A dargli la caccia sono una coppia di detective, William
Somerset (Morgan Freeman) e David Mills (Brad Pitt), differenti nei
caratteri quanto nei metodi investigativi: il primo prossimo alla
pensione è disilluso ma riflessivo, pronto ad affidarsi alla ragione che
nutre con lo studio e la conoscenza, il secondo, giovane e spaccone, è
impulsivo, e affida le sue possibilità di successo all'azione e
all'irruenza fisica. Ad unirli è l'indagine portata avanti per scovare
l'autore delle uccisioni rituali ispirate ai sette vizi capitali, da cui
il titolo, e poi un attaccamento al dovere quasi ascetico, che in
qualche modo li differenzia dal resto dei colleghi, superficiali e
inetti, come emerge dal distacco di Somerset, rassegnato
all'incomprensione che lo circonda, e dalle parole di Mills - "È così
che lavorate qui?"- che non perde tempo ad etichettare i colleghi come
buoni a nulla.
Se la detection è il volano che fa
progredire la vicenda, con rapporti di causa effetto strettissimi - ad
ogni omicidio corrisponde un ulteriore tassello del mosaico psicologico
dell'avversario - e con la presenza del tempo scandita dalla
suddivisione della vicenda in capitoli (ad ogni giorno della settimana
corrisponde un vizio capitale e il contrappasso mortale attuato dal
killer), "Seven" propone una serie di temi e stilemi ricorrenti nella
prima parte della carriera di Fincher, quella che parte da "Alien 3"
(1992), esordio all'insegna del cinema seriale e poi si sviluppa dopo il
film in argomento, con i successivi "The Game" (1997), terzo elemento
di una possibile trilogia "dolorosa", e "Fight Club" (1999), la
pellicola che conclude il periodo dell'apprendistato e dell'innocenza,
con il regista da lì in poi completamente padrone dei mezzi di
produzione e dei meccanismi del successo. Se le prime quattro opere
hanno alternato successo misurato e veri e propri flop commerciali, le pellicole seguenti saranno quasi sempre fortunate anche in termini di incassi. In prima fila tra i leitmotiv
si segnala una visione apocalittica della vita e della società,
corrotta dall'egoismo e dal vizio, e per questo condannata a morte con
le sue stesse mani - il finale del film è in questo caso simbolico, con
John Doe in versione kamikaze pronto a morire per completare la sua
missione di palingesi morale - e poi a cascata le naturali conseguenze:
la violenza come ribellione e cambiamento allo stato delle cose (tema
sviluppato in "Fight Club"), mancanza di senso, isolamento, colpa e
soprattutto un dolore atavico, fisico e psicologico, che non abbandona
neanche per un momento i personaggi, anche quando si tratta di
annunciare la nascita di un figlio, quello di Tracy (Gwyneth Paltrow),
la moglie di Mills, accolto dalla ragazza con un pianto che non lascia
ben sperare sul futuro che attende il nascituro, e sottolineato da
Somerset con una frase - "come potrei avere un figlio dopo tutto quello
che vedo" - alquanto significativa.
Ad interiorizzare una
dimensione emotiva in via di disfacimento concorre un sottotesto ricco
di materiali psichici, con la pioggia costantemente scrosciante ad
enfatizzare la dimensione di purificazione a cui è improntato l'operato
di John Doe, e sostitutiva sulla scena di un carattere quasi sempre
fuori campo, con i ruoli di Somerset e di Mills a riproporre l'archetipo
di un rapporto padre/figlio, presente con le opportune varianti nei
primi tre film del regista, e quello di Tracy, sottratto a qualsiasi
tipo di carnalità e fortemente materno, a costituire nella sua purezza,
l'unica ancora di salvezza per un'umanità - in disarmo - che i due
uomini, loro malgrado, sono chiamati a rappresentare nell'arco della
storia.
Una dimensione individuale e solipsistica, quella di
"Seven", che però non esclude il tempo presente ma anzi lo rispecchia
nel cambiamento di prospettive provocato dal crollo del muro di Berlino e
dalla fine della Guerra Fredda, quando la mancanza di un nemico
(esterno) da combattere costringe la nazione a guardarsi allo specchio e
a fare i conti con se stessa. Fincher registra il cambiamento e poi
presenta il conto attraverso la figura di John Doe, il nuovo incubo,
servito sotto le spoglie dell'uomo qualunque; avversario senza identità
(Doe si taglia i polpastrelli per sparire dai database) che attraversa
l'esistenza dei due detective mischiandosi tra la gente comune, con i
costumi (il fotografo in cerca di scoop) di un quotidiano
apparentemente innocuo e invece letale. Ma "Seven" non si ferma qui e
mina alla base l'essenza stessa della cultura americana facendo crollare
il sistema sotto i colpi di un "predicatore" che riporta alla luce la
religione dei padri fondatori ribaltandone gli effetti con un'azione di
segno contrario.
Attraverso John Doe, il sermone che aveva fatto da
collante nella fase "costituente" diventa lo strumento che toglie la
speranza e cancella qualsiasi ipotesi di futuro, spingendo il film verso
un finale nerissimo, consumato nell'agghiacciante sequenza finale a
suggellare la catastrofe.
Ed è proprio questa catarsi al
contrario, con il trionfo del male sul bene, a sconfessare le
convenzioni del thriller americano, rivelandoci i prodromi di un'arte
che nasce come sintesi tra il cinema americano degli anni 70 e quello mainstream
del decennio successivo. Dal primo, "Seven" mutua la capacità di
lavorare all'interno del sistema, portando a galla un discorso personale
ed artistico che non penalizza la fruibilità, ed in secondo luogo
un'essenzialità che riesce a comunicare senza sprecare un metro di
pellicola, basti pensare all'utilizzo dello spazio devoluto ai titoli di
testa, più che cartellone un vero e proprio rompicapo che rimanda
direttamente alla mente ed al corpo dell'assassino, rivelandoci fin da
subito informazioni decisive per il rebus che la storia
cercherà di risolvere; dal secondo, l'importanza degli aspetti visuali e
di composizione dell'immagine, oltre alla costanza della progressione
narrativa.
Spuntano così gli immancabili riferimenti: ad Alan J.
Pakula ed al suo "Klute"(1971), illuminato dal mitico Gordon Willis,
punto di riferimento del direttore di fotografia Darius Khondji per la
creazione dei contrasti tra luce e ombra che caratterizzano gli
ambienti, e quello esplicito a "Blade Runner" (1982), citato sia
attraverso l'inseguimento in cui Mills alle calcagne di Doe si apre la
strada saltando da una macchina all'altra, che nel ritratto della città
di Los Angeles, mefitica ed astratta come quella di Scott. Emerge infine
uno stile strettamente consequenziale allo sviluppo narrativo, con un
trionfo di campi medi e piani americani che la dicono lunga sulla voglia
di raccontare l'uomo e il suo habitat, e al contempo il
desiderio di tracciare le coordinate di un'esistenza senza punti di
fuga, immersa negli intestini di una città-prigione come testimonia la
quasi totale assenza di panoramiche da e verso il cielo. Una
claustrofobia emotiva e materica dal quale si può evadere accentando le
conseguenze di un'apertura, - sottolineata dal campo lunghissimo che
mostra per la prima volta uno spazio immenso e disabitato - che
retrocede gli uomini ad uno stato primordiale.
La chiosa finale,
con la voce fuori campo di Somerset che commenta da par suo l'accaduto
dicendo "Hemingway ha detto che il mondo è un bel posto e che vale la
pena lottare per esso, io condivido solo la seconda parte", restituisce
perfettamente il significato di una visione cinematografica che fa
pensare e non lascia indifferenti.
(pubblicato su ondacinema.it/pietre miliari)
4 commenti:
Uno dei miei film preferiti, uno sicuramente tra quelli che più mi ha angosciata nella tarda adolescenza.
Non posso fare altro che definirlo capolavoro!
il mio essere d'accordo con te e' evidente da quello che ho scritto. Peraltro rivedendo la filmografia di Fincher ho constatato come Fight Club rappresenti per il regista la fine di una prima fase più creativa e libera di cui sicuramente Seven e' la punta di una popolarità che per Fincher arriverà solamente con Benjamin Button eThe Social Network. È importante rilevare che la fiducia accordata al regista capace di fallire dal punto di vista commerciali produzioni ambiziose e con grandi star, parlo di film come Alien 3, The Game, bellissimo ed incompreso, e poi Dight Club capace di incassare in America appena 37 milioni di dollari, nonostante due attori del calibro di Brad Pitt ed Edward Norton.
nickoftime
Il mio preferito :) i finali cattivi mi hanno sempre affascinato, in questo caso ancor di più, dato anche l'inserimento dei peccati capitali...
effettivamente "Seven" ha un finale veramente agghiacciante e per essere un film anche commerciale molto coraggioso..3 omicidi in un colpo solo e poi di che portata nell'ambito della storia..
nickoftime
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