Cane mangia cane
di Paul Schrader
con Nicolas Cage, Willeim Dafoe,
USA, 2017
genere, azione, drammatico, thriller
durata, 93'
Ogni volta che esce un film di Paul Schrader è quasi impossibile non rammentare il curriculum dell’autore che oltre ai saggi sul cinema e a diverse regie annovera alcune tra le sceneggiature più importanti del nuovo cinema americano a cominciare da quella da cui Martin Scorsese ha ricavato un capolavoro come “Taxi Driver”. Allo stesso modo non si può fare a meno di annotare l’influenza che ha avuto sulle biografie dei suoi personaggi una visione del mondo che il regista ha mutuato dai dogmi della calvinista, trovando in quest’ultima lo spunto per storie segnate da un pessimismo di fondo destinato a sfociare in destini drammatici e ineluttabili, nei quali anche i comportamenti più abominevoli altro non sono che il prodotto di quel senso dell’umano rintracciabile nei testi di Schrader.
“Cane mangia cane” si inserisce all’interno di tale tendenza non solo per le sue caratteristiche di opera noir incentrata sul colpo organizzato da tre ex detenuti desiderosi di rifarsi una vita con il ricavato di un’ultima rapina, quanto per essere la versione filmata dell’omonimo romanzo di Edward Bunker, scrittore tra i più duri e intransigenti della letteratura criminale contemporanea. Una miscela ad alto tasso di violenza che Schrader - qui solo regista - mette in scena con una forma che va in senso opposto a quella della sua fonte letteraria. Tanto , il romanzo di Bunker si distingueva per il realismo delle descrizioni, tanto la trasposizione di Schrader se ne distacca per la scelta di un espressionismo di stampo pulp, vicino a quello molto in voga dopo il successo del modello tarantiniano.
Così facendo “Cane mangia cane” inizia quando il libro di Bunker è arrivato a un terzo della sua lunghezza, tagliando soprattutto sull’introduzione dei personaggi e sull’origine delle loro personalità, le cui “distorsioni” Schrader riassume - ed è forse questa l’intuizione migliore del film - attraverso il surplus visivo delle immagini, sovraccariche come non mai di colori psichedelici, inquadrature sghembe e prive di profondità, a riassumere la follia caratteriale dei tre outsiders. Come già aveva fatto in “Autofocus” Schrader affronta il dramma dei suoi personaggi utilizzando un registro surreale, a tratti grottesco (su tutti la sequenza d’apertura con il trip lisergico di Mad Dog/William Dafoe) in cui quello che emerge è un esistenzialismo che si esprime soprattutto attraverso la contemporanea alienazione di Troy (un Nicolas Cage tenuto a bada dal regista) Diesel e Mad Dog, sorpassati nel lavoro dalla spietatezza delle nuove leve e incapaci di rapportarsi con il prossimo: come accade a Troy e Diesel, scansati dalle escort da cui vorrebbero affetto e un po' di comprensione. A corto di soldi Schrader riesce a supplire alle mancanze produttive con una narrazione che sembra scaturire dalla testa dei personaggi, e che per questo riesce a fare a meno della (costosa) ricostruzione del milieu malavitoso all’interno del quale si svolge la vicenda, inglobato nella “teatralità” dell’impostazione scenica e recitativa. Limiti che appartengono anche alla sceneggiatura, troppo frettolosa quando, nella seconda parte, si tratta di raccontare l’epilogo della storia, e che però non impediscono al film di portare a casa il risultato.
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