giovedì, luglio 13, 2017

LOST: UN VIAGGIO SENTIMENTALE


When will I find the strenght to bring me release ?"
- J.Buckley, "Eternal life" -

Any where out of the world ! L'estenuato grido dell'animo baudelairiano riecheggia di continuo nel flusso - sistematicamente in bilico su un presente imperscrutabile e ipotetico quanto sulla giostra sospesa tra un passato e un futuro, al contrario, sempre possibili/probabili - delle immagini sognanti o premonitrici, romantiche o inconsolabili, avventurose o tragiche, di una delle serie Tv più seguite e amate degli ultimi anni, ovverosia Lost. Sei stagioni (la quarta, tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008, funestata dallo sciopero degli sceneggiatori americani che permise di ultimare solo otto episodi ai quali, in un secondo tempo e salvando comunque la continuità, ne vennero aggiunti altri cinque) e altrettanti anni di programmazione (dal 2004 al 2010). Centoquattordici puntate della durata di una quarantina di minuti ciascuno, l’ambientazione esotica (le Hawaii, perlopiù l'isola di Oahu), i costi enormi, un seguito che a distanza di tempo continua a produrre discussioni e siti specializzati, Lost è l'ennesima creatura scaturita da quel crogiolo d'intuizioni che è il talento enciclopedico e mercantile di J.J.Abrams (al suo attivo, per restare al piccolo schermo, anche la saga dell'eroina Sydney Bristow di Alias, quella avvinta attorno alla rappresentazione degli universi paralleli di Fringe, nonché diverse altre idee di partenza ricompensate con alterne fortune). Sin da subito, però, ciò di cui stiamo parlando si differenzia dalla media delle produzioni similari per essere qualcosa d'altro e di diverso dalla narrazione delle traversie affrontate su una generica isola sperduta in mezzo al Pacifico da un gruppo di superstiti di un disastro aereo - qui, il volo Oceanic 815, sigla che torna spesso e volentieri nell'opera, alla stregua di molti altri involucri simbolici e broccardi fantasiosi di matrice cabalistica, cripto-linguistica, crittografica, capaci di generare in giro per il mondo una massa enorme di congetture, dietrologie, attese per rivelazioni di misteri eternamente latenti, e almeno altrettante cantonate (è sufficiente, per tutti, ricordare la serie numerica 4, 8, 15, 16, 23, 42, che spunta qui e là tra le pieghe degli eventi, fantomatica base di un'equazione altrettanto fantomatica, lascito di un ancor più fantomatico matematico italiano, Enzo Valenzetti, e senza contare le implicazioni più ovvie e programmaticamente alte di tanti patronimici utilizzati: Locke, Rousseau, Faraday, Hume, Burke, Austen…) - Lost è, cioè, e prima di tutto, un contenitore, in cui far confluire l'intero spettro dell'esperienza umana - la vita, la morte, la nascita, la resurrezione persino: e l'orrore, l'abnegazione, l'amicizia, il tradimento, la solitudine, l’amore, l’odio - e poi (forse) la piattaforma d'accesso verso un (altro) inizio. In virtù dei suoi recessi labirintici e potenzialmente senza fine, infatti, a mezzo di aperture che conducono a rifugi, magazzini, silos, laboratori, collegati fra loro dalla misteriosa necessità del progetto DHARMA (utopia realizzata dell'uomo nuovo ? Aspirazione a una società ideale ? Uno dei più sofisticati esempi di ammaestramento e manipolazione ?), l’isola, che da questo momento sarà, più correttamente, l’Isola, è un universo a sé stante, letteralmente in grado di spostarsi avanti e indietro nel tempo, dall'apparente calma assicurata da una Natura primordiale, rigogliosa e trionfante, eppure sempre attraversato da forze appartenenti a una sorta di Caos remoto e capriccioso che senza posa sollecita quello latente/rimosso/represso all'interno di ogni singolo personaggio.


A me sembra che starei sempre bene là dove non sono, annotava ancora Baudelaire. E della stessa irrequietezza si nutrono i personaggi immaginati da Abrams, spinti, sul filo teso ma la cui consistenza è tutta da dimostrare, tra un dove/stato mentale lussureggiante e insidioso - l'Isola - e il tornare-a-casa - quella di sempre o quella del desiderio, purché sia fuori da questo mondo - Del resto, se pare sia sempre e solo un'altra la vita che vogliamo e persino Jacob, il custode degli enigmi e ilfumo nero non aspirano che ad andarsene, allora l'erranza del gruppo di sopravvissuti del volo 815 oltre che ininterrotta diventa spia in miniatura di un disagio più vasto e profondo il quale, distribuito su un ulteriore scala (quella dell'intero Occidente) evidenzia una dicotomia che nella lunga transizione che stiamo attraversando, nel crepuscolo minaccioso di un progresso più subito che indirizzato, non lascia indifferenti, perché contribuisce a marcare il discrimine che separa quello che siamo stati da quello che potremmo essere. Una dicotomia riconducibile, ad esempio, al senso comune di celebri espressioni (usate qui come mero pretesto, lo stesso assai evocative): da un lato, ilfa' di te stesso un'isola (D'Annunzio), come affermazione inequivocabile dell'individuo, del suo primato; dall'altro, inversa polarità, il nessun uomo è un'isola (Donne), a ribadire, invece, e a ridefinire in prospettiva, il progetto di comunità come pietra angolare di qualunque forma di armonia, che l'Occidente proprio su un'isola - l'Isola - tenta di comporre come estremo tentativo di debellare la nausea (o lo spleen di Baudelaire, il risultato non cambia), ovvero il non poterne più, a conti fatti, proprio di sé stesso. Dell'aver declinato, per dire, il concetto di equilibrio come sommatoria di oggetti - e persone - da controllare/possedere (il dispotico magnate Widmore/Dale). Di essersi di conseguenza inchinato e mai rialzato al cospetto di Sua Maestà il Denaro e del suo onnipotente Gran Consigliere/Tuttofare, la Tecnica. Della venerazione per il lavoro purchessia: oltre l'alienazione, l'incolumità fisica e psicologica, lo spauracchio per niente aleatorio della schiavitù, l'oscena eterogenesi dei fini tra produzione e consumo (pensiamo ai mestieri senza storia di Locke/O'Quinn e dell'Hurley/Garcia pre-lotteria, prestando orecchio alle considerazioni di un uomo come Adam Smith, tirato sovente per la giacchetta da un liberismo mai tanto vanitoso nel proclamarsi allergico a ogni limite: L'uomo che passa la vita a compiere un numero limitato di operazioni semplici, non ha modo di esercitare la propria intelligenza e le sue facoltà inventive. Egli si abitua a questo esercizio e generalmente incretinisce - A.Smith, La ricchezza delle Nazioni, 1776 -). E delle agonie privilegiate, delle comode inerzie e delle sfavillanti scipitezze (le anodine routine borghesi di Jack/Fox, Sun/Kim e dei fratellastri Boone/Somerhalder e Shannon/Grace). Delle bassezze e delle ipocrisie spacciate per cul-de-sac esistenziali. Come, alla fin fine, dei tanti, troppi sentimenti inconfessabili e dell'incapacità quasi pacifica, oramai, a provarne di sinceri. Ed è proprio attorno a queste voragini, a questi incontrollabili campi elettromagnetici della vita che uno a uno collassano, a questi fumi neri che dilagano per poi di nuovo addensarsi, che vortica l'uomo moderno, volta per volta rivelato dall'incrollabile dirittura morale venata di sensi di colpa e di ubbie circa la propria inadeguatezza di Jack. Dalla dolcezza guardinga e dall'indipendenza fragile di Kate/Lilly. Dalla sfacciataggine ribalda ma difensiva di Sawyer/Holloway. Dalla logica inesorabile ma imperfetta di Locke. E ancora, dalla sublime perfidia alimentata da un dolore mai rimarginato di Benjamin Linus/Emerson. Dalla determinazione disincantata di Sayid/Andrews. Dalla febbrile irruenza e dalla fedeltà a un patto del viaggiatore del tempo Desmond/Cusick. Dal sarcasmo malinconico e onnicomprensivo ("Ehi, coso") di Hugo detto Hurley. Dalla dedizione reciproca più forte di ogni contraddizione di Sun e Jin/Kim. Dalla desolazione inerme in cerca di affettuoso riparo ma capace di sacrificio del rockettaro Charlie/Monaghan e così via…


Su questa linea si può provare, cosi, a inquadrare anche il caleidoscopio spiazzante dei vari flashbackflashforward (ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere; mettere le mani sul passato per guarire il presente e ricominciare a confidare nel domani), nonché l'incedere elegiaco e misticheggiante del finale, consequenziale e furbastro, magari pure prevedibile e deludente (questo accade spesso) o allusivo (nel senso che si ha la netta sensazione che la faccenda sia tutt'altro che finita: e questo accade già più di rado): persino eventuale, se vogliamo, (tutto il mondo di Lost è racchiuso in due battiti di ciglia del suo leader Jack Shephard, guida, detrattore e poi martire che sopra ogni altra cosa non si rassegna al buio, all'impossibilita di vedere, come vuole una modernità per cui tutto deve essere manifesto, a portata di mano, facile da usare, cioè, in sostanza, passibile di superamento delle sue ambiguità). In ogni caso, latore di un'inquietudine e d’una insofferenza che scomodano certezze tali solo in superficie e che nei fatti continuano a ribattere su rimpianti inconsolabili, slanci inappagati, occasioni più o meno stupidamente mancate, ansie e timori tutt'altro che superati (sul serio ancora da dimostrare se e quanto sia balzano il sospetto per cui l'uomo costretto a essere moderno cominci piuttosto ad averne abbastanza della prospettiva sempre alle porte di un futurosic et simpliciter artificiale, tecnologico, prevedibile, in ogni suo aspetto pacificato, dilemma già digerito e stigmatizzato a suo tempo da Barthes: Di colpo non mi fa più né caldo né freddo non essere moderno). Come a dire che, tutto sommato, è sempre lo stesso il punto all'infinito al quale istintivamente - come esseri umani - si tende, ossia quello giunti di fronte al quale ritrovarsi insieme, davvero, pronti, unicamente, semplicemente, ad amare.
TFK

Nessun commento: