di: C.Mazzacurati
con: V.Mastandrea, I.Ragonese, G.Battiston
- ITA 2014 -
Commedia - 97 min
Regalarsi un'illusione innervandola di fiducia, provare a sorridere delle cose senza dimenticare di che pasta sono davvero fatte, oggi come oggi e' un'operazione talmente grama da rendere lo stoicismo un esercizìo praticabile su larga scala. Eppure tale e' l'invito proposto da Carlo Mazzacurati (scomparso pochi mesi or sono) in questo suo film, "La sedia della felicita'" - presentato durante lo scorso Torino Film Festival - "ultimo" solo come elemento di una serie fatalmente interrotta ma in grado di prolungare il proprio interesse, nonché la gentile malia, in virtù del rincorrersi al suo interno delle tracce di una volontà ancora assai curiosa e per nulla rassegnata al cosiddetto "spirito del tempo".
Levita', una qual allegria, felicita', persino (o per l'appunto, visto il titolo), sono espressioni a potenziale alto tasso di retorica: grimaldello spesso maneggiato a sproposito o inserito per fare leva sui cardini delle porte sbagliate. Nell'opera di Mazzacurati tali estremi riescono, invece, non tanto ad imporsi, quanto a non stridere col tessuto di una storia che sebbene ancorata alla linea narrativa, ai ritmi e agli snodi tipici della commedia - a volte con intarsi fiabeschi, talaltre intrisa di uno spirito bizzarro o grottesco - non distoglie mai del tutto lo sguardo dalla amalgama (precaria, in parte incomprensibile, spesso afflitta se non desolata) con cui s'impasta la contemporaneità, quest'eterno presente in forma di una transizione all'apparenza senza fine, dagli esiti sfuggenti, quindi oltremodo inquietanti, calatasi oramai nel profondo delle vite di ognuno e che e' allo stesso tempo antropologica, morale ed economica. Parliamo della ricerca di una stabilita' psicologica prima ancora che materiale; della mutazione radicale del paesaggio, della sua funzione, del suo "utilizzo" (nel caso, il famoso/famigerato Nord- Est, oggi frammento periferico informe di un "impero" senza centro e senza indirizzo) e delle conseguenti modificazioni interiori che essa innesca. Come pure dell'accelerazione dei processi economici sempre più spesso subiti anziché indirizzati o della difficoltà di accordare il proprio passo a quello di un'umanità sovente illusa e ferita allo scopo di riannodare il filo di una possibile convivenza, et. Tutti elementi che ne "La sedia della felicita'" pulsano sempre di quella loro luce insidiosa e un po' tetra (comune ai momenti più malinconici e sospesi di altri lavori) ma che il chiarore diffuso della fotografia di Bigazzi, la scelta di contrasti vivaci nella tonalità dei colori, il buonumore dei paradossi, delle battute e delle trovate - in alcuni casi al limite del mero scherzo, in altri tratteggiato secondo l'estetica dispettosa dei cartoon - attenua nell'affacciarsi di penombre e chiaroscuri forse infidi, mai pero' prevaricatori.
Del resto i personaggi stessi - Dino (Mastandrea che aggiunge una nota di candore al collaudato personaggio la cui scarsa presa sulla realtà si caratterizza a forza di sorrisi accennati e perplessi silenzi), di professione tatuatore, separato, un figlio che non vede quasi mai, arretrati da pagare e scarse prospettive, e Bruna (la Ragonese, simil eroina di Miyazaki, cortesia e occhi vispi, compostezza ancorata ad un vasto fondale di brio), estetista, eternamente a rischio pignoramento, tradita in amore - in picaresca caccia, assieme ad un prete sui generis (il padre Weiner di Battiston, video-poker dipendente, avido e pasticcione) di un tesoro-refurtiva, pur muovendosi sul crinale di una tipizzazione cara ai trascorsi del regista, assecondano una piega scientemente modellata in guisa da far risaltare, grazie anche all'esilità dell'intreccio, i caratteri più amabili, quasi fanciulleschi, di quella sorta di "cinismo bonario" con cui stanno al mondo. Dino e Bruna, infatti, sono persone escluse dai grandi giochi della Storia; le loro esistenze "al 3%" si consumano gomito a gomito con i centri commerciali e i ristoranti cinesi. Ciò che trascinano nei giorni sono occupazioni dirette dirimpettaie di quel narcisismo di massa che in provincia si agghinda di striature surreali o bislacche, alla stessa stregua delle persone che conoscono o frequentano, dirette emanazioni di quei territori o di ciò che ne resta al netto dei rivolgimenti inflitti loro dalla "modernità". Ciononostante - e in questo risiede lo scarto "sovversivo" di Mazzacurati - un tale modo di vivere (o di sopravvivere, non importa) non gl'impedisce di produrre lo sforzo di conoscersi reciprocamente, di trovare man mano addirittura il coraggio d'innamorarsi per cui, a conti fatti, la "caccia al tesoro" risulta essere più il mezzo che il fine della loro avventura e il premio ricevuto qualche grano di autentica comprensione, che alla felicita' somiglia molto, se non le sopperisce per intero. In ogni caso, una ricompensa per una volta svincolata, almeno in parte, dalla poltiglia della necessita' e del denaro a rinnovare l'antico adagio - forse non solo più tale, a questo punto - per cui "bene qui latuit, bene vixit".
TFK
1 commento:
Visto al TFF, non mi è piaciuto per niente. Sembra il risultato di un accoppiamento frettoloso tra la fiera del luogo comune e la retorica spicciola.
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