lunedì, febbraio 15, 2016

45 ANNI

45 Anni
di Andrew Haigh
con Charlotte Rampling, Tom Courtenay
Uk, 2015
genere, drammatico
durata, 95'

E’ l’imbrunire di una giornata abbastanza fosca, una donna è trascinata dal cane che conduce a passeggio mentre un addetto postale, incontrato sulla via, le ricorda l’imminenza dell’evento da lei così atteso, quell’anniversario di matrimonio su cui si baserà l’intera pellicola. 45 anni è il lento destabilizzarsi, quasi autolesionistico ed a tratti involontario, di una coppia giunta all’importante traguardo di quasi mezzo secolo d’amore, un lungo cammino percorso dal marito con un pesante fardello impossibile da rivelarsi. Almeno fino a quel giorno, quando una missiva riporta alla luce il dramma dell’uomo, racchiuso per troppo tempo nel proprio cuore, pronto ad esplodere nel giorno più importante della loro vita. Cinque giorni dividono l’arrivo della lettera dai festeggiamenti, un brevissimo arco temporale in cui a più riprese sembrerà di assistere ad un progressivo disgregamento del materiale amorale su cui si poggia l’intero impianto matrimoniale dei coniugi. Il tempo sembra dilatarsi oltre ogni limite nei giorni centrali della settimana, pur non scadendo in progressioni esasperanti, permettendoci di percepire il patema d’animo della donna (magnificamente interpretata dalla Rampling), la quale sembra prendere su di sé l’intero onere della situazione, tendendo ad oscurare il marito che, difatti, risulta più volte anche sul piano visivo “messo da parte”: i due appaiono spesso, quando la storia inizia ad incalzare ed il mistero ad infittirsi, lontani se non divisi dall’oggettistica e dall’arredamento (il dialogo in cui la moglie è divisa, nel fotogramma, dal marito e gli parla attraverso una libreria) per poi lasciar fuoriuscire l’uomo completamente dall’inquadratura (come nei dialoghi approntati dalla coppia sul letto, dove la donna sembra immersa in un intenso soliloquio, lasciandoci cadere in errore e riprendendoci subito dopo grazie alla presenza del voice over dell’uomo). 


La coppia si disgrega quasi impercettibilmente, ed è qui l’abilità di Andrew Haigh (regista giovane con all’attivo un altro bel lungo dal titolo Weekend e la direzione della famosa serie britannica Looking); l’uomo, esasperato dal disagio creatosi, viene esiliato non solo visivamente ma anche narrativamente, lasciato ai margini delle pagine dello script, ai bordi delle inquadrature, ma sempre presente nei discorsi della moglie e delle amiche, pronte a sostenerla pur nella sua tormenta (bella la presenza di uno dei personaggi chiave della bellissima serie Utopia come capobranco del gruppo di amiche). Il racconto dell’uomo che sembrava essersi concluso anni prima, definitivamente archiviato dalla coppia, riemerge ora prorompente, con ostinatezza oppressiva sui nervi della donna, incapace di gestire lo sviluppo narrativo della storia, che giunge all’apice nella tremenda scoperta sul reale passato dell’uomo. Quello che sembra un progressivo disinteressamento involontario di uno dei due partner che potrebbe sfociare nella dissoluzione di un duraturo rapporto si dimostra per quello che è in realtà, ovvero un tentativo di ancoraggio degli stessi protagonisti, in particolare della donna, alla loro storia, dalla quale sembrerebbe impossibile divincolarsi in così breve tempo, giusto l’arco di una settimana. L’uomo lambisce il cerchio matrimoniale senza mai ritornarvi completamente, durante questo periodo, ma nemmeno senza uscirne con convinzione, alternando momenti di dolcezza effimera ad altri di completo anonimato sentimentale. 

La fotografia dai colori tenui e mai troppo accentuati, la cura scenografica dai toni minimalisti, l’accompagnamento sonoro assente e sostituito spesso dai suoni naturali ed artificiali di cui il film è costellato (importante il rumore delle diapositive che si susseguono nel proiettore una dopo l’altra) rendono amica l’atmosfera del film, lasciandovici immergere completamente, quasi noncuranti della quarta parete. Il ghiaccio, elemento ultimamente molto presente nella cinematografia (Revenant, The Hateful Eight), ha mantenuto la protagonista del mistero intatta, così come intatti sin sono mantenuti i sentimenti dell’uomo per lei, conservatisi per anni e poi disgelatisi all’arrivo della lettera. La regia, funzionale alla storia, si mantiene sempre sui binari canonici del classico, con campi lunghi e medi, alternati a sporadici primi piani, preferendo piuttosto una perfezione maniacale nella ricercatezza interpretativa. Maniacalità che ripaga con le ottime interpretazioni degli attori, premiate giustamente a Berlino. Un buon matrimonio è pieno di storia, ci vien detto, e il matrimonio qui narrato di storia ne ha davvero molta, ottimamente narrata e messa in scena.
Alessandro Sisti

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