Se con Django Unchained Tarantino aveva realizzato il suo divertissement personale più riuscito, con The Hateful Eight si torna finalmente sui binari della genialità cinefila propria del regista americano. Il librarsi degli uccelli in volo verso un cielo lattiginoso, che a fatica si riesce a distinguere dalle innevate lande nordamericane, ci introduce in un corpus paesaggistico quasi unico nel suo genere, particolarmente originale e mai troppo utilizzato, ergendosi a valida alternativa dei glaciali scenari immortalati non troppo lontanamente (nel tempo) da Iñarritu nell’acclamato Revenant. Tarantino ci fa quasi abbracciare la croce intagliata nel legno con cui si apre la pellicola (perché realmente di pellicola si può parlare questa volta, data la Ultra Panavision 70mm utilizzata), emblema di una simbologia cristiana che riappare sibillinamente nel corso della narrazione a più riprese, per poi allontanarsi e panoramicare sulla diligenza che procede speditamente, incurante dell’intemperie che la insegue. Hateful Eight è una pièce teatrale, non in dichiarata spudoratezza come nel Renoiriano La Carrozza d’Oro, dove al centro della contesa non vi era una diligenza ma una carrozza reale intarsiata d’oro; Tarantino muove i propri personaggi come su un palcoscenico, non lasciando nulla al caso: i gesti studiati, le movenze accorte, gli sguardi analizzati con il contagocce si susseguono nella pellicola con una ritmica registica ineccepibile, lasciando fluire gli eventi senza l’intervento massivo della macchina da presa, seguendo i personaggi muoversi all’interno delle rarefatte ambientazioni rappresentate. Il comparto scenografico è limitato ad un paio di interni (la merceria è sicuramente il più complesso nell’arredamento e il più presente nella scena) e ad alcuni esterni fotografati con cura, in cui lo spettatore si ritrova a sentire sulla propria pelle il gelo affrontato dai protagonisti, complice anche un sonoro d’effetto che alle rullate e a fischi delle pallottole accompagna un costante sibilo del vento che raffredderebbe anche l’animo dello spettatore più caloroso.
Come in un gioco di quinte ottimamente riuscito, le porte vengono subito serrate, impedendo alla tormenta di insinuarsi nel tepore della merceria, ma costringendo al contempo i protagonisti a rimanere imprigionati nella trama intessuta dal regista e confrontarsi l’uno con l’altro, confronto che sul piano visivo permette a Tarantino di sperimentare ed innovare continuamente le inquadrature, non imbrigliandosi nella matassa sviluppata da lui stesso, ma cambiando continuamente piani ed ottiche, in un riuscitissimo puzzle di sequenze. I primissimi piani con i cappelli a delimitare i bordi dei fotogrammi e i dettagli sugli occhi provenienti dalla scuola di Sergio Leone, così come le carrellate sugli stivali e la camera a fil di piombo che osserva, attraverso le travi del soffitto, e striscia carrellando lungo di esse per poi soffermarsi su di un personaggio adagiato sulla poltrona che darà origine al conflitto sono solo alcuni degli artifizi registici messi in campo, accompagnati da un comparto fotografico davvero in forma con un Richardson (già responsabile del capolavoro citazionistico Kill Bill) che, oltre a girare in pellicola, suddivide cromaticamente le ambientazioni con forza, riscaldando con il fuoco (o con in fuochi, se vogliamo, dal momento che anche i cambi focali nella visione prospettica Tarantiniana sono molteplici e tutti ben orchestrati) e con le lampade un interno che si staglia profondamente dal blu notte delle lande innevate che circondano la merceria. Il freddo cerca ugualmente di insinuarsi, tra i dialoghi, tra le fessure della porta impossibile da richiudere manualmente, tra le ferite da poco aperte, tra le travi del pavimento e la macchina da presa, un gelo talmente permeante da rendere impossibile il riscaldamento dell’ambiente, della storia. Una storia che degenera con cautela e congela i protagonisti in quel luogo, con i loro problemi, le loro storie e la sicurezza del rinnovato entusiasmo di Tarantino nello sperimentare all’interno delle proprie pellicole.
Alessandro Sisti
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