The Hateful Eight
di Quentin Tarantino
con Samuel L. Jackson, Kurt Russel, Channing Tatum, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern
Usa 2016
genere, western, giallo, thriller, azione
durata 165’; 188’ (pellicola)
L’eccezionalità che fin dagli esordi è appartenuta alla filmografia di Tarantino consiste nella naturalezza con la quale film relativamente commerciali abbiano rappresentato nella maggior parte dei casi - su tutti “Le Iene” e “Pulp Fiction” - una vera e propria rivoluzione all’interno dell’apparato del cinema contemporaneo. L’aspettativa per “The Hateful Eight”, dunque, era quanto mai elevata, sia per il successo al botteghino che aveva avuto “Django Unchained”, sia per le vicissitudini che hanno quasi istigato il regista del Tennessee a non voler portare a termine il progetto, causa la precoce fuga di notizie avvenuta circa la sceneggiatura.
Ormai terzo film consecutivo collocato in un preciso momento storico - nello specifico siamo una manciata di anni dopo la guerra di secessione - a sorprendere in “The Hateful Eight” non sono gli ormai classici modi tarantiniani - che pur restano ben evidenti nella verve dei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi, nell’impressionante ritmica drammaturgica che qui appare ancor più potenziata per via degli spazi chiusi - ma una maturazione nella messinscena che solo in “Jackie Brown” avevamo intravisto e che qui appare definitiva. In particolare, l’elemento del trash e della violenza pura, che nelle altre pellicole risultava quasi un gioco nell’evidenza della finzione (si vedano l’ultimo quarto d’ora di Django) qui seppur ancora più violento, si amalgama al lavoro fotografico - fotografia che negli interni richiama continuamente a cromatismi tendenti al rosso - e alle necessità narrative. La pellicola in 70mm, inoltre, offre un’esperienza immersiva totale in quanto non utilizzata per i campi larghi - anche se i pochi che compaiono sono di una bellezza quantomeno suggestiva, come la lenta apertura iniziale sul Cristo innevato - ma piuttosto per i primissimi piani e i numerosi dettagli offerti all’occhio dalla generosità del formato.
Altro elemento tipico che contribuisce non poco alla riuscita dei film del regista americano è come la scelta degli attori sia sempre perfetta per il personaggio e, non a caso, quello di Warren fin’ora è senza dubbio la migliore interpretazione in carriera per Samuel Jackson - sorvolando sulla protesta faziosa inscenata da Spike Lee, che lascia il tempo che trova, la mancata candidatura di Jackson all’Oscar risulta quantomeno incomprensibile, così come quella per la sceneggiatura -. Il mescolamento di generi – thriller, western, pulp etc. - e ovviamente il citazionismo sfrenato - nello scatolone finiscono “La cosa”, “Shining” e alcuni tratti stilistici propri di Hitchcock - vengono dunque assorbiti dalla maturazione cui facevamo cenno prima, maturazione avvenuta non solo grazie alla bontà e all’eleganza del girato ma anche alla tematica dello script, dal quale emerge una riflessione meta-cinematografica sulla menzogna che diventa reale quando posta come verità - non è un caso che uno degli elementi portanti della drammaturgia, al di là dell’ambiguità dei personaggi, sia la finta lettera di Lincoln -.
Quentin Tarantino firma dunque con “The Hateful Eight” un’opera immensa che, grazie alla definitiva consapevolezza dei propri mezzi e più in generale del mezzo cinematografico, gli ha permesso di risalire alle origini della violenza e quindi alle origini del proprio cinema.
Antonio Romagnoli
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