Amore tossico
di Claudio Caligari
con Cesare Ferretti, Michela Mioni, Enzo di Benedetto
Ita, 1983
genere, drammatico
durata, 96'
La cinematografia italiana ha spesso e sapientemente attinto
dal repertorio documentario, carpendo storie dal sapore verosimile ed
utilizzando un linguaggio grezzo tipico di questo particolare genere. Caligari,
autore dalla limitatissima ma fondamentale filmografia, viene a formarsi negli
ambienti militanti post-sessantottini, tra i capannoni industriali e le piazze
cittadine,imbracciando la necessaria Portapak e documentando sommovimenti ed
agitazioni che in quegli anni funestavano gli animi irrequieti della gioventù,
anticipando ciò che sarebbe poi stata la naturale prosecuzione della sua
vocazione registica; Amore tossico appare
come un reportage dal sapore attuale, una dichiarazione d’intenti che affonda
le proprie radici nel passato e con la propria lungimiranza mira al cupo futuro
che lo seguirà. La Ostia inchiodata allo schermo da Caligari non è più il
marciapiede da passerella su cui sfilava una solitaria Sandrelli in Io la conoscevo bene ma si avvicina,
piuttosto, alle rappresentazioni neorealistiche affrontate da Pasolini; un
marchio, quello del verismo e del neorealismo, che sembra ancorarsi
intrinsecamente all’opera del regista romano, dimostrando un’ importante
devozione nei suoi confronti con l’utilizzo di girato on location (necessario
altresì per la verosimiglianza del materiale rappresentato), l’ingaggio di
attori presi dalla strada dal curriculum psicotropo assai valido e una macchina
da presa altalenante tra il tentativo autoriale e l’invisibilità del mezzo.
L’apertura in panoramica sul pontile di Ostia è programmatico, quasi
obbligatorio, essendo il luogo maggiormente frequentato dalla tossicodipendenza
romana, tant’è che riappare quasi citazionisticamente nell’ideale seguito
sempre diretto da Caligari, quel Non
essere cattivo che tanti plausi ha valso al regista oltre al suo, tardivo,
approdo al lido veneziano. La camera segue da lontano l’incontro dei due amici,
si avvicina in punta di ago per carpirne i gesti ed i primi dialoghi poi, così
come il prolungamento ferreo delle spade utilizzate e si insinua nel sotto pelle
filmico per analizzare i lunghi pomeriggi di apatia e stasi della ridotta
combriccola di periferia.
Le vite di Cesare, Enzo, Roberto e Michela ruotano
attorno all’effimera felicità prodotta dalle pomeridiane “svortate” che si procurano,
alternano l’ossessiva ricerca di nuove dosi e di metodi alternativi per
ottenerle a piccoli reati utili per raggranellare spiccioli (la rapina dal
magro bottino diventerà poi scena fondamentale anche dell’ideale seguito, sorta
di aggiornamento edulcorato e privo della crudezza tipica di Amore tossico) al dramma della crisi
d’astinenza, cui si potrebbe ovviare tramite poco pulite scorciatoie o
sotterfugi sessuali cui i protagonisti, soprattutto femminili, tentano in tutti
i modi di evitare, pur dovendo inevitabilmente soccombere al pressante
malessere fisico che ne accompagna i primi sintomi. Le spade si moltiplicano
mentre i volti dei protagonisti non si smarcano dall’apatia che li accompagnerà
sia nella realtà Caligariana che nella vita quotidiana; le espressioni vaghe di
dispersione scorteranno i ragazzi in un road-movie originale in cui la strada
da attraversare è scivolosa e prossima all’otturazione come le vene
rappresentate, l’auto sfreccia alla stregua delle siringhe, forte del proprio
carburante stupefacente. La periferia romana tinteggiata dal documentarista è
fosca, prossima alla disgregazione ultima dei valori, il linguaggio è
impregnato di asprezza, la mdp si muove cruda lungo i vasi sanguigni degli arti
ormai al collasso e vi si adagia, aspettando con lenta inesorabilità l’avvento
del tepore.
Ostia è deserta, la stazione è pronta ad accogliere anche lo
sventurato gruppo, tra uno scherzo da prete ad una coppia di suore ed un
ennesimo ritrovo con l’antisesso Er donna,
reincarnazione degli ideali di trasgressione rappresentati; la libidine è
rarefatta ed anche il momento in cui questa dovrebbe essere al culmine (l’atto
sessuale consumato nella più totale passività) l’emozione languisce e l’amore
si affievolisce, diventando freddo atto meccanico. Le note si affastellano
l’una sull’altra senza una reale linearità, seguendo l’esempio del materiale
psicologico descritto, allineandosi nella partitura che congeda “il ferro” dal
tessuto narrativo, in una sequenza davvero efficace in cui Cesare dapprima vi
gioca ed in seguito, quasi incoscientemente, la punta su di se e verso la
propria amata, non mostrando alcun accenno emotivo. Amore tossico non ha la
visionarietà registica di Requiem for a
Dream, né aspira allo script di un Trainspotting
ma ha dalla sua un disarmante grado di verosimiglianza che lo rende
tremendamente autentico. “Oh, ma che so quelle luci laggiù? Le luci della ribalta” si sente nel film,
ma dell’ilare atmosfera di Chaplin qui, per fortuna, nemmeno l’ombra.
Alessandro Sisti
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