In nome di mia figlia
di Vincent Garenq
con Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie Jose Croze
Francia,
genere, drammatico
durata 87'
di Vincent Garenq
con Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie Jose Croze
Francia,
genere, drammatico
durata 87'
Negli Stati Uniti della nuova Hollywood accanto al cinema
che era espressione degli ideali di rinascita e di progresso tipici di quel
periodo trovò modo di svilupparsi un filone cinematografico di segno opposto, caratterizzato
dall’esibizione di una violenza inconsulta e reazionaria che nell’intento di
salvaguardare i valori della vecchia America riciclava il tema della vendetta,
utilizzato come puntello per giustificare la brutalità delle azioni commesse
dal protagonista interpretato da Charles Bronson. Come infatti si ricorderà ne
“Il giustiziere della notte” di Michael Winner (1974) un tranquillo e onesto
cittadino decide di farsi giustizia con i propri mezzi a causa dell’inettitudine delle
istituzioni che non sono riuscite a perseguire i responsabili dei delitti
commessi nei confronti della sua famiglia. A distanza di tempo, e con molti epigoni succedutisi
nell’esercizio del tema in questione, tocca a un film francese tenere alta la
bandiera di questa sorta di auto determinismo sociale attraverso il racconto di
quanto realmente accaduto ad André Bamberski a partire dall’estate del 1982
quando l’uomo riceve la telefonata della ex moglie che lo informa della morte
della figlia quattordicenne.
Convinto che la ragazza non sia morta per cause naturali, come i più
vorrebbero fargli credere, bensì a
causa del maldestro tentativo del patrigno - il medico tedesco Dieter Krombach
– di coprire l’evidenza degli abusi sessuali commessi ai danni della giovane,
Bamberski decide di dedicare il resto della sua esistenza a dimostrare la
colpevolezza di Krombach. Il quale, grazie alla connivenza del governo tedesco
e all’imperizia di quello francese - intenzionato a scongiurare le conseguenze
di un incidente diplomatico e quindi per niente propenso a fa valere le ragioni
della legge – riesce a farla franca, sottraendosi alla giustizia e continuando
a vivere la propria vita fino a quando il protagonista non deciderà di passare
alle vie di fatto, assoldando un banda di malviventi pagati per rapire il
lestofante.
Considerato che la storia del film è ricavata da uno dei
fatti della cronaca francese più famosi degli ultimi anni e che il regista Vincent Garenq è considerato uno
specialista di questo genere di operazioni, va da se che “In nome di mia
figlia” dal punto di vista cinematografico è quanto di più lontano si possa
immaginare dal lungometraggio girato da Winner. In questo caso il personaggio di Bamberski pur partendo
dalle stesse premesse di quello interpretato da Bronson - al quale lo lega
anche la metodica ossessione nel perseguire l’obiettivo finale – è figlio del
proprio tempo e soprattutto della propria cultura; quindi depositario di una
fiducia nelle prerogative connesse
con le regole del cosiddetto patto sociale che nonostante le avversità
incontrate nel corso della sua lunga odissea processuale esulano dal ricorso al
giustizialismo fai da te così in voga oltreoceano. In questo modo le aule dei
tribunali e i palazzi della burocrazia prendono quindi il posto degli slum metropolitani e dei sobborghi periferici, con le
dispute legali e i dettagli procedurali a sostituire il piombo delle pistole e
i corpi insanguinati mentre la realtà desunta negli archivi dei giornali e nei
programmi televisivi prevale sulla spettacolarizzazione del dolore e sull'epica
dell'uomo solo contro tutti. Per contro, il senso della misura e la razionalità
che ispira l'operato del protagonista travalica lo finzione scenica per
diventare l'orizzonte entro il quale si muove la messinscena di Garenq, il
quale, per il timore di non dimenticare nulla di ciò che è accaduto e forse
nell’intento di rendere merito agli sforzi di Bamberski, allestisce uno
scadenzario visivo tanto sistematico quanto scontato, preoccupato di riportare
la successione degli avvenimenti con una planimetria di luoghi date e figure
umane che costituiscono i capitoli in cui è suddivisa la trama. L'effetto
generale è quello di un riassunto ben ordinato ma privo di appeal emotivo. Sprovvisto della freddezza necessaria a giustificare tale distacco " In
nome di mia figlia" non riesce neanche a far breccia dalle parti del
cuore, costringendo Daniel Auteuil ad una recitazione pressochè impalpabile.
(pubblicata su ondacinema.it)
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