Passo falso
di Yannick Saillet
con Pascal Elbè, Laurent Lucas, Arnaud Henriette
Francia, 2016
genere, thriller
durata: 78'
Che il genere di appartenenza di questa vicenda ad altissima tensione sia la survivalist-story è chiaro e, da cinefilo che a diciassette anni ha venduto la macchina dei genitori per finanziare il suo primo cortometraggio, Yannick Saillet bene, al punto che, prima di mettersi all’opera, scartando l’ossessiva ricerca dell’inquadratura perfetta tipica di un regista di videoclip, aveva già stabilito di dividere il suo breve racconto in venti sequenze di pari durata, profondamente diverse l’una dall’altra: alcune più mosse, altre più pacate, nell'insieme regolate da una calcolata alternanza fra dialoghi e silenzi, primi piani e campi lunghi, rinnovata speranza e nera disperazione.
Per giudicare "Passo falso" bisogna partire dalla padronanza del linguaggio cinematografico di un filmaker che sul set è sempre a proprio agio e dalla mancanza, forse, di quella gioiosa spontaneità che rende un unicum ogni opera prima, nei pregi e nei difetti. E tuttavia, il desiderio di Saillet di distinguersi dai vari "Buried", "127 ore" o "In linea con l’assassino", se da un lato indebolisce il potenziale drammatico del film, che non sempre suscita la riflessione sugli orrori di un conflitto inutile, dall’altro priva, con una scelta felice, il disgraziato protagonista di quell’eroismo e di quella celebrazione dell'ingegno che hanno fatto dei personaggi principali delle pellicole citata un pugno di tough guys.
Interpretato con misura da Pascal Elbé, il soldato francese Denis ha poco di valoroso. E' un uomo che ha tradito un compagno d’armi, che non sa come disinnescare l’ordigno e che decide quasi immediatamente di affidarsi al volere del destino, confidando nell’intervento di un deus ex machina che, se arrivasse, riporterebbe "Passo falso" nel dominio dell’entertainment, privandolo di quel vago sapore di b-movie che contiene, se non altro per l’ingegnosità con cui viene sfruttato il budget ridotto.
Nella vita di Denis si alternano fugaci apparizioni: un cecchino, un bambino e un gruppo di donne coperte da burka celesti che, come Madonne rinascimentali, rendono per un istante liquido, suggestivo e femminile il paesaggio, salvo poi ritrasformare la poesia in cronaca brutale nel momento in cui portano silenziosamente via la droga. C’è grande bellezza in questi attimi e nella messa in scena, che però si incanta un po’ troppo nella contemplazione di sé e resta come sospesa, incapace di prendere una precisa strada formale, collocandosi a metà fra un esercizio di stile e la ricerca di umanità.
Figlio di un militare, Yannick Saillet si è posto certamente domande sulla guerra e, lasciando per un attimo la scena a un comandante meschino che vorrebbe appropriarsi dell’eroina, non ha voluto ignorare la stupidità e la superficialità dell’uomo occidentale, che furbescamente traffica per ottenere una medaglia al valore, che al coraggio ha sostituito l’apatia e la noia e che come nome in codice, forse non a caso, sceglie Akela, il lupo de "Il libro della Giungla" e, negli Scout, il capo dei Lupetti e delle Coccinelle, senza rendersi conto che l’Afghanistan non è un campo da gioco ma di battaglia, e che le armi, non di plastica ma di ferro, sparano e uccidono.
Riccardo Supino
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