Looper
di, Rian Johnson
con Bruce Willis, Joseph Gordon-Levitt, Emily Blunt, Jeff Daniels, Paul Dano
USA 2012
genere, fantascientifico
durata, 120’
Magagna e zavorra - spesso più grossa degli universi sfasati che vorrebbe tratteggiare - di tante opere centrate sui cosiddetti paradossi temporali è l'incapacità, a volte dolosa, a volte solo tale, d’indirizzarle entro una griglia coerente, per quanto ambigua e scivolosa sia la sostanza che intende maneggiare o - che è lo stesso - di costruirgliene una attorno abbastanza resistente da rintuzzare gli assalti delle incongruenze e i sospetti circa forzature tanto estreme nelle intenzioni quanto calcolate al millimetro nei fatti ossia, alla fin fine, solo velleitarie. Nella maggior parte dei casi il meccanismo ammannitoci soffre di scarsa calibratura e dopo un po' gira a vuoto; in altri, al contrario, viene banalmente reiterato come espediente (sul serio si può parlare di loop) nell'illusione che la riproposizione generi di per sé, tipo cane di Pavlov, la meraviglia.
Prima freccia all'arco di questo "Looper" di Rian Johnson - e lo stesso personaggio incarnato da Bruce Willis, Joe, s'incarica di sottolinearlo (Se parliamo troppo di viaggi nel tempo, finiamo a fare diagrammi con le cannucce) - è proprio mettere, per così dire, le mani avanti sin dall'inizio, giocare a carte scoperte ed esaurire la trovata paradossale in una semplice cornice narrativa che in poche e accorte mosse salda l'ipotesi fantascientifica alla concretezza brutale e matematica delle crime stories ammiccando con riguardo all'essenzialità del cosiddetto Cinema-di-serie-B e nobilitando al tempo l'insieme con tocchi di malinconia e sospensioni agganciate a melodie struggenti e a luci diurne morbide quanto contrastate.
In un futuro nemmeno troppo lontano (2074), i viaggi nel tempo sono cosa fatta. Con la stessa rapidità con cui la tecnologia è disponibile e funziona, però, vengono messi al bando per via delle alterazioni imprevedibili che essi possono comportare nella trama delle vite degli uomini. Un'occasione del genere non può comunque passare inosservata agli occhi di chi fa del controllo, dello sfruttamento ed eventualmente della distruzione delle vite altrui, la ragione della propria prosperità e quindi della propria esistenza, a dire il Crimine Organizzato. Infatti esso se ne appropria, e taratili sul trentennio precedente (2044, il presente del film), ci spedisce impacchettati con tanto di ricompensa incorporata (sottili lingotti d'argento) coloro di cui si vuole disfare senza lasciare traccia. Ad aspettarli, di qua, killer prezzolati, i looper del titolo armati di spingarda futuribile, che si limitano a giustiziarli accoppandoli ai margini di vasti campi coltivati non appena i malcapitati si materializzano nel continuum. Le cose filano in una sorta d’oliato ingranaggio da super-corporazione trans-temporale della morte fino al giorno in cui dal futuro viene rispedito indietro il te-stesso-che-non-t’aspetti dal momento che il misterioso boss detto Lo Sciamano sta chiudendo tutti i loop e il rapporto che lega sicario e vittima diventa contestualmente sempre più stretto e letale.
In un mondo ibrido - colto nella lunga transizione che precede la trasformazione radicale verso una società compiutamente tecnologica abitata più da individui che da un senso convinto di comunità e che neanche tanto alla larga tradisce echi dell'attualità che ben conosciamo - ovvero un mondo degradato e sporco, in cui la delinquenza assurta a rango di para-governo detta le regole per tutti (Daniels, subdolo e sornione, sorta di plenipotenziario del crimine, discetta in vestaglia, barba lunga e bicchiere di whisky, riguardo il suo ruolo di mastino dell'Organizzazione a cui nulla può essere nascosto), la miseria appare per le masse una condizione di nuovo ineluttabile e per i pochi rimanenti l'orizzonte vitale si riduce ad un po' di promiscuità e alla sempiterna dipendenza chimica, i caratteri motori del film si muovono e soffrono su coordinate più psicologiche che filosofiche o pseudo-scientifiche - ecco l'altro merito di Johnson - che mano mano spostano l'asse della narrazione dalla cronologia in apparenza senza scampo di un determinismo implacabile, al passo interiore dei rispettivi personaggi, scoprendo oltre l'ovvia relazione che li lega (Gordon-Levitt e Willis sono la stessa persona separata dai fatidici trent'anni ma si approssimano e si scontrano quasi in un simil freudiano contrasto generazionale padre/figlio), una comune matrice di assenze, di silenzi affettivi, di appuntamenti mancati (Gordon-Levitt/Willis ricorda/rimpiange con toni diversi ma ugualmente tormentati la madre; la Blunt medita a voce alta sulla fatuità dei suoi trascorsi giovanili e sulle sue mancanze di genitrice: più in generale s'insinua la fisionomia d'una dolorosa frattura su scala planetaria tra madri chiuse in una muta angustia, distratte o poco presenti e figli - in particolare maschi - lasciati a sé stessi, prematuramente rancorosi, stanchi, disillusi), nonché un impreciso quanto inconsapevole desiderio di spezzare il cerchio (loop, appunto) per aprirlo verso direzioni più promettenti.
La pellicola funziona meno quando l'alternanza di riflessione esistenziale e incursioni tipiche nelgenere (inseguimenti, sparatorie, utilizzo degli effetti speciali) frammentano il racconto, trasmettendo una sensazione d'impasse, di scarsa fluidità, come se nell'indecisione finisse per prevalere l'incertezza fra un taglio una volta per tutte intimista (con tutti i rischi del caso) e un adeguamento a canoni più sbrigativi e consolidati (come se anch'essi, è bene ribadirlo, non implicassero un certo numero d’incognite, vedi il ricorso disinvolto al ralenti e gli insistiti punti di vista eccentrici). Si aggiunga l'introduzione di un elemento catalizzatore delle fila del racconto che forza - e di molto - l'equilibrio emotivo dell'opera a favore di una prevedibile resa dei conti finale e si comprende come il continuo rilancio su argomenti decisivi come il sentimento e la passione da preservare oltre il tempo, l’opportunità di cambiare il futuro, l’inestricabilità dei termini amore esacrificio nell'equazione della vita, perda via via parte del suo smalto. "Looper" ciononostante s'inserisce senza troppi attriti, seppur solo a colpi di fuggevoli suggestioni, entro quella che si potrebbe definire - cinematograficamente parlando - l'onda lunga del Tempo, che in simbiotico abbraccio con un altro dei grandi rimossi della cultura e della coscienza occidentale contemporanea (non a caso la sua pressoché unica declinazione è quella spettacolar-catastrofica), a dire il concetto/presagio della Fine (fine della Civiltà, fine della Storia, fine del mondo) attraversa - almeno, per restare nelle vicinanze, da "Terminator" (1984) in poi - l'immaginario moderno, accompagnandolo in spazi ancora in gran parte sconosciuti o inconsci e allo stato attuale delle prospettive e delle sensazioni epidermiche scarsamente allettanti. Il presente, confuso e tragico sembra, nel corpo di queste narrazioni, essere solo il trampolino di cui servirsi per accedere al futuro da cui magari provare a dare alla contemporaneità un'altra piega. Tornare indietro, cioè, come fa Joe/Willis, ha senso solo se ciò contribuisce a riaffermare la possibilità di salvaguardare un legame autentico, un'intesa pura: se, in altre parole, esiste ed è praticabile il margine per affrancarsi nel profondo dal cerchio terribile del Tempo, dalle sue ferite, i suoi traumi, i suoi lutti.
TFK