”The Thing/La Cosa"
di: J.Carpenter
con: K.Russell, K.David, A.W.Brimley, T.K.Carter, D.Clennon, R.Dysart,
C.Hallahan, R.Masur, P.Maloney, D.Moffat, J.Polis, T.Waites
Horror - USA 1982 - 108 min
Se, come fu a suo tempo con perspicacia notato (e già riportato - per i
'moviemaniacs' più amanti dei ricorsi e delle ricerche d'archivio - negli
articoli riguardanti, ad esempio, Winona Ryder), "gli anni '80" non "sono
stati" solo il naturale compimento di un processo antropologico e sociale
inauguratosi decenni prima, quanto, piuttosto, "l'inizio di qualcosa",
"qualcosa" di sfuggente e pervicacemente mutevole le cui propaggini - molti
dicono derive (intraviste, come che sia, tra gli altri, già al volgere degli
anni Cinquanta con impressionante lungimiranza da Celine: "Questo mondo, il
mondo occidentale, il nostro... ebbe' tutto 'sto mondo, e l'America, vive nella
pubblicità, e' marcio di pubblicità, si', abbrutito, completamente abbrutito
dalla pubblicità..." o: "Giornali, solo giornali... pubblicità e necrologi". E
ancora: "La razza che cresce e' quella gialla, la bianca e' finita", come pure:
"... tutta la cagheria filosofica, tutto l'orrore fotografico, tutto l'obitorio
di natiche impalate, zinne operate, nasi accorciati, e chili di ciglia... si' !
chili ! pesanti !... unte !... rosse !... verdi !") - sono ancora ben salde in
taluni risvolti del nostro vivere, mentre addirittura di altre connotazioni
(stili, mode, genericamente "costumi": si pensi, per dire, ad un personaggio
importante dell'immaginario recente come Kurt Cobain che quegli anni -
quell'anno, il 1982 - li ha attraversati da adolescente - quindicenne -, ossia
nel bel mezzo dell'"età inquieta", assorbendone tra entusiasmo e ripulsa
l'impatto, per secernerne a breve gli echi nei lampi intensi e fugaci di una
espressività sofferta, delicata, rabbiosa) si celebrano assidue riproposizioni
e adeguamenti - tra parodia e nostalgia, calcolo e indifesa smemoratezza - il
proporsi all'attenzione di massa di un film come "La Cosa" di John Carpenter
agli inizi di quella decade spartiacque - opera a sua volta meticcia ed
elusiva, a meta' fra recupero cinefilo in equilibrio su generi diversi
(fantascienza, avventura, horror, western) e integrazione coerente all'interno
dei canoni di una poetica - annuncia, e proprio in ragione del saldo ancoraggio
ai generi suddetti, nonché della centralità di un'idea narrativa modernissima
(un "organismo" senza volto che vive e prolifera imitando la realtà per
assumerne tutti i tratti "biologici" fino a sostituirsi ad essa), lo svolgersi
di un periodo storico una delle principali caratteristiche del quale sarà per
l'appunto l'inesausta manipolazione/trasformazione delle superfici (i corpi,
gli oggetti, i paesaggi, lasciando le ricadute sugli universi interiori alle
parole di Bret Easton Ellis, uno che dentro a quei momenti ci ha rovistato
spesso:
"Le cose cambiano, vanno a pezzi, svaniscono. Un altro anno, qualche
altro spostamento, un tipo duro al quale non gliene frega un cazzo, una noia
talmente abissale che mi paralizza, progetti così vaghi fatti da chissà chi. E
mi rendo conto che da ognuno di noi SI ESIGE la perdita di ogni senso della
realtà per delle aspettative talmente irragionevoli che si diviene fatalisti,
anche se, in realtà, ce la si potrebbe fare"); la superfetazione degli
accessori, degli orpelli: "cose", 'ca va sans dire', che l'hydra capitalistica
a tre teste, produzione-consumo-distruzione, impone in via definitiva proprio
in quei giorni come sistema di misura standard d'interpretazione e valutazione
del mondo. Allo stesso modo dell'ossessione, tutt'altro che marginale - e in
pericoloso bilico tra esortazione all'eleganza, alla "levigatezza" e
un'insopprimibile curiosità/appetito - per il vistoso, l'eccentrico, in un
delirio proteiforme e "deforme" che la "creatura" di Carpenter incarna e
ingloba in se' allo stesso tempo - rappresentazione millimetrica dell'istante e
fosco monito per il futuro - con una plasticità ed una imponenza tali da
fornire concretezza tridimensionale alle tante suggestioni che pulsano dentro
di lei: dalle allusive stranezze afflitte di Bosch, alle scarnificazioni e
inserzioni intransigenti della Body Art; dagli strazi delle membra e delle
bocche protese-verso-altre-forme di Bacon, alle angosce millenaristiche di una
Fine sempre data per imminente, di un'Apocalisse talmente definitiva perché
incistata negli anfratti più riposti dell'esistenza, da risultare, forse, più
ottundente che spaventosa.
La tristezza implicita nell'affermare che ogni giorno qualcosa si allontana
per cui noi dimentichiamo (con annessa sensazione di sconforto e di perdita) e'
in parte stemperata dalla sua inesorabilità (e - a ben vedere - da un grano di
ovvio) e dalla consapevolezza che, a volte, l'esercizio paziente della
curiosità e della memoria abbinato al piacere della sfida intellettuale - resa
ancor più stimolante se lanciata a colui/coloro che abbiamo eletto a
riferimento speciale per la nostra formazione - può, nel peggiore dei casi,
prolungare il brivido dell'illusione e, nelle combinazioni baciate dalla
grazia, ampliare un'intuizione (nel caso, una visione) offrendole alternative
impreviste e suggestive, in modo tale da poter sostenere, senza enfasi ma pure
senza tentennamenti, che non tutto va per forza perduto: che, si', qualcosa
rimane. Potrebbe essere stata una giravolta mentale simile a questa - perché no
? - ad avere instradato una volta per tutte Carpenter sulla scia di "La 'Cosa'
da un altro mondo"/"The 'Thing' from another world", progetto seguito assai da
vicino un trentennio prima da uno dei suoi autori prediletti, Howard Hawks, e
su cui John rimuginava dai tempi del college, stimolato anche dagli inviti
rivoltigli dal vecchio amico Dan O'Bannon (quello, per intendersi, degli script
di "Dark star" (1974) - l'esordio di Carpenter -; di "Alien" (1979); di "Atto
di forza" (1990); di "Screamers" (1995)) a leggere il racconto originale di
John Wood Campbell jr., "Who goes there ?", che aveva ispirato il lavoro di
Nyby/Hawks. Fuor di congettura: il regista di Carthage (NY), appassionato sin
da ragazzino del "fantastico", negli anni che precedettero il suo cimento (non
a caso i titoli di testa del film c'introducono ad una "John Carpenter's 'The
Thing'") si era sul serio già imbattuto sia nel racconto di Campbell jr., sia
nell'opera-prototipo di Nyby/Hawks, oltreché per ragioni, diciamo così,
professionali ed "estetiche", anche, se non in via elettiva, per il rapporto
personale diretto che legava il suo apprendistato pre e post adolescenziale a
quel piccolo ma imaginifico mondo della fantascienza in b/n, sovente a basso
costo (un riferimento per tutti: fra le schegge d'antan preferite di Carpenter
troviamo "L'assalto dei granchi giganti" - 1957 - produzione rapida e in
economia di quel geniaccio di Corman), percorso da inquietudini catastrofiste
per la presenza - spettro/feticcio - dell'Atomica; intriso di ambasce e
diffidenze che riflettevano la spossante altalena ideologica dei "blocchi"
impegnati sullo scacchiere della Guerra Fredda nelle mosse obbligate della
reciproca deterrenza. Ma più di ogni altra cosa, intessuto e vivificato da una
pratica artigianale - non di rado talentuosa e innovativa (metabolizzata dal
giovane Carpenter, nel suo quotidiano, anche a colpi di fanzine e comics) -
che, se l'occhio smaliziato ed un tanto impigrito di oggi dalla prepotenza del
digitale può arrivare a considerare naïf, se non a volte involontariamente
comica, allo stesso modo, una valutazione un minimo più ragionevole che tenga
conto di alcune variabili, contestualizzandole - possibilità tecniche, risorse,
velocità di realizzazione e conseguenti tempi di fruibilità del prodotto et. -
non potrà al contrario, non riconoscerne la notevole vivacità inventiva e una
generosità d'approccio le quali, tornando ai giorni nostri in cui "tutto e'
possibile", "tutto si può (anzi, si deve) fare/(vedere)", stanno diventando
merce sempre più rara.
Coestensiva ad una simile impronta metodologica, si dispiega una pratica
cinematografica che, da un lato, con tenacia si sforza di produrre, opera dopo
opera, un discorso riconoscibile, ragionato e passibile di evoluzione (il
famigerato e un po' roboante "sguardo d'autore"); dall'altro, tiene sempre
fermo il punto in merito alla necessita' di costruire un lavoro il più
possibile interessante e coinvolgente (proposito, tra l'altro, più facile da
ipotizzare che da mettere in atto, viste le non poche insidie sparse
all'interno dei 'generi'). Dice Carpenter: "I film sono emozioni. Un pubblico
dovrebbe piangere, ridere o spaventarsi. Penso che il pubblico dovrebbe
proiettarsi nel film, in un personaggio, in una situazione e 'reagire'". Come
pure: "Il cinema e' un mezzo per trasmettere sensazioni. Un film invita il
pubblico a dare consistenza alle idee, in senso psicologico, ad investire sullo
schermo le proprie emozioni". Forma mentis e dichiarazioni di principio,
queste, che si offrono a noi sin dalle sequenze di apertura de "La Cosa",
durante le quali un'astronave proveniente dallo spazio profondo penetra
oscillando nell'atmosfera per sparire sotto i ghiacci del continente antartico
dove stazionerà in latenza fin quando il caso impersonato dall'elemento "umano"
darà modo e ragione al suo equipaggio di rianimarsi. La stessa collocazione
della vicenda, del resto - un presidio genericamente scientifico, tal 'United
States National Science Institute - Station 4 -' (per l'esattezza un 'compound'
denominato 'outpost 31' ove si raccolgono dati sull'ambiente naturale
antartico), perso nel profondo Sud del mondo - richiama da subito alla mente
uno degli accorgimenti tematici ricorrenti in Carpenter: la delimitazione
chiara di un luogo entro cui un singolo o una comunità d'individui e' portato-
a/costretto-a ad interagire con forze (spesso maligne) che ne svelano, sotto
l'apparenza di ordine e coesione (o, come, nel caso, d'innocua inerzia: il
corpo di spedizione sembra più indaffarato nell'escogitare sistemi per far
passare il tempo che oberato dalle rispettive incombenze) le contraddizioni, le
ipocrisie, i veri e propri odii, in un gioco di specchi per cui l'ampiezza e la
profondità dell'incidenza del Male perde uno dei suoi tratti distintivi (e
consolatori), ossia quello dell'individuazione, contribuendo, in filigrana, a
render manifesta la riflessione del regista circa il significato e le sorti
dell'agire umano destinati entrambi spesso ad un approdo che mescola pessimismo
e irredimibilita'. Se a ciò aggiungiamo anche l'impossibilita' di avvalersi di
un punto di vista alternativo - quello femminile, ad esempio - qui
icasticamente/ironicamente limitato ad una carezzevole voce computerizzata che
anima una scacchiera virtuale, per di più senza remore messa fuori uso dal
protagonista, l'elicotterista Jim MacReady/Kurt Russell, con un gesto
tutt'altro che cavalleresco - diventa ancora più chiaro il taglio prospettico
con cui Carpenter guarda (più in generale) il mondo per poi restituircelo.
In verità, e' proprio la storia a dipanarsi su linee guida narrative che ben
poco lasciano all'ottimismo: i dodici uomini che compongono l'avanguardia
tecnico-scientifica in Antartide ("replicato" per gli esterni relativi alla
base nella British Columbia e, per un certo numero di altre riprese, in Alaska)
mostrano fin da subito di avere poco da spartire l'uno con l'altro che non sia
la similarità delle mansioni o la più banale promiscuità coatta. Da minime
rigidità o insofferenze dissimulate in qualche gesto, da rapide occhiate o da
una certa laconicità dei dialoghi (ecco un interessante contraltare al film del
1951, caratterizzato, invece, come si sa e come era nelle corde di Hawks, da
battute serrate spesso intrecciate fra loro, utili a tenere alto ritmo e
tensione. Leggendario il "Fogarty a Hendrix" scandito senza tregua alla radio
per tentare di aprirsi, con la comunicazione, un'ipotetica via d'uscita) -
dettagli con nettezza isolati da Carpenter - si "sente" che ciò che cementa il
gruppo non e' l'armonia, tanto meno l'amicizia reciproca. L'inserirsi di una
"Cosa" all'interno di dinamiche umane minate dall'indifferenza, dal sospetto,
se non dalla vera e propria ostilità, ha così l'effetto di un meccanismo che,
al momento della verità, disinnesca la leva del contrasto riducendola ad una
scomposta lotta per la sopravvivenza la cui malconcia presa, infine, solo
MacReady (un tizio "ready"/"pronto" per l'appunto, reattivo, tipico "in-joke"
del regista) proverà a qualunque costo a far funzionare. Di più: Carpenter non
nasconde, anzi sottolinea, nei primi piani perplessi/circospetti indi
stravolti/inermi degli uomini l'antitesi fra la loro razionalità - e di
conseguenza capacita' di risposta - a conti fatti solo presunta o, quanto meno,
incapace di organizzarsi con efficacia e la silenziosa, insidiosa "coerenza"
della "Cosa", la quale, fino alla fine, secondo un disegno semplice ma
"lucido", ossia prendere possesso dei corpi dei dodici per poi volgere i propri
appetiti all'intero pianeta (da notare che la "forma prima" dell'"intruso" non
la conosceremo mai), non fa che eluderne, sviarne, confonderne le contromosse.
E buon ultima, anche la Scienza - di li a poco nuova "ossessione" per Carpenter
- si dimostrerà fallace, contrariamente allo sforzo per un "contatto inter-
specie" inseguito seppur invano nel film di Nyby/Hawks: Blair/Brimley dopo aver
dedotto lo schema di comportamento della "Cosa" e prima di venirne
"fagocitato", da in escandescenze finendo confinato e preda di una cupa abulia.
Seguendo il filo di queste osservazioni risulta forse più agevole comprendere
come un campo di applicazione ben noto al Cinema fantastico e non, a dire
quello del mostro-dentro-di-noi, si arricchisca nell'esperimento carpenteriano
(che, a guardar bene, e' esso stesso una "creatura" in divenire, "qualcosa" che
assimila e riproduce sollecitazioni disparate: letterarie, fumettistiche,
cinematografiche et.) di una connotazione, se possibile, ancor più sinistra,
ovverosia quella inerente il fallimento, se non persino l'impossibilita'
pratica della costruzione, nell'incipiente società delle merci, del denaro e
dell'apparenza, di relazioni feconde e durature, di sforzi comuni in vista di
un futuro condiviso che non siano il simulacro di patetiche finzioni o
autentiche, stavolta, quanto mostruose aberrazioni (di nuovo Ellis: "Non vuoi
mica restare incinta, no ? Sai, partoriresti qualcosa di spaventoso. Un mostro
? Qualche bestia ? Vuoi che succeda una cosa del genere ?"). In altre parole,
la posizione appena illustrata andava senza possibilità di equivoci a mettersi
di traverso sui binari di una certa retorica che proprio a cavallo degli anni
'80 (una delle didascalie iniziali del film pone gli eventi raccontati nella
contemporaneità del momento: "winter 1982") aveva preso a diffondersi
insistendo su un rinnovato senso di fiducia e di ottimismo da declinarsi in via
prioritaria nella logica di una prosperità materiale centrata sul benessere e
sul consumo riassunta - magari un tanto di fretta ma con schietta aderenza allo
stato delle circostanze - nel termine "edonismo", al punto che, alla fin fine,
potrà - la predetta retorica - tranquillamente annoverarsi anche tra i non
secondari motivi del sostanziale fallimento del film al botteghino. A dire,
autostima, intraprendenza, generica "positività" e affermazione di se'
purchessia, egoismo come valore, sono concetti che a cavallo degli anni in
questione vengono riscoperti - leggi adattati e rivenduti nella più appetibile
confezione ludico/consumistica - e riversati instancabilmente sull'immaginario
di massa come una sorta di mantra salvifico i cui effetti sono divenuti,
retrospettivamente parlando, molto più che un'anomalia del passato: alla lunga,
in altri termini, essi hanno preso le sembianze di un vero e proprio modo di
vivere, arrivando a contraddistinguere tuttora il nostro presente, un po' alla
stregua di quei "cieli color lecca-lecca" via via trascolorati, agli albori di
un nuovo millennio, in altrettanto impalpabili per quanto persistenti "vanilla
skies" (ancora Ellis, come modello di uno degli esiti più macroscopici:
"Guardando Tim, non si può fare a meno di avvertire un'assenza di meta, di
scopo, come se fosse una persona alla quale semplicemente non importa niente").
Non stupisce, allora, a paragone, che la scontrosa risolutezza di Carpenter,
intrisa di scetticismo (MacReady come lo Snake Plissken di "Fuga da New York"
o, per taluni aspetti, come il Napoleone Wilson di "Distretto 13", e' un leader
riluttante, di poche parole, risoluto per necessita' e autoconservazione e non
certo per aderenza ad una causa: "La fiducia e' una cosa molto rara
oggigiorno", dice MacReady, dettando un mesto messaggio/testamento ad un
registratore, "Nessuno si fida più di nessuno, ormai. Siamo tutti molto
provati. Io non posso fare altro che aspettare") e resa per certi versi ancora
più amara dallo scandito tappeto sonoro di Morricone che imperturbabile batte
le stazioni di una lugubre disfatta, si sia infranta contro il muro di un
"sentimento diffuso" che adagio ma senza incertezze si stava tramutando in
"sentimento dominante", abbracciando con presa sicura ampi ambiti
dell'esperianza umana, Cinema incluso. Difficile parimenti non leggere, in
quest'ottica, il successo planetario di una pellicola come "E.T." di Spielberg
(trionfo dell'immaginazione come innocenza e scommessa sulla composizione dei
dissidi, sulla tolleranza che alimenta la speranza e guarda al domani. Sugli
schermi in concomitanza con "La Cosa" - 1982 -, collettore, ed e' solo un
semplice raffronto quantitativo, di una montagna di dollari, il piccolo extra-
terrestre si protese rapido verso il mezzo miliardo solo sul mercato USA a
fronte di un investimento di circa dieci milioni, a cui il misterioso
"organismo" di Carpenter rispose - si fa per dire - nelle medesime categorie,
con una raccolta di una ventina di milioni per una spesa intorno ai quindici)
anche come l'evidente squilibrio dei piatti di una bilancia i cui contrappesi
inquieti, discordi, dubbiosi sono in larga minoranza rispetto a spinte capaci
di produrre e assecondare un impatto psicologico e comportamentale planetario.
Eppure il film di Carpenter - e Carpenter stesso, tutto sommato - poteva
contare su un certo numero di frecce per il proprio arco. Il regista, nello
specifico, era già l'autore di opere apprezzate dagli addetti ai lavori e dal
pubblico, come "Distretto 13: le brigate della morte" (1976); "Halloween: la
notte delle streghe" (1978); "Fog" (1979); "1997: fuga da New York" (1981). E
dal canto suo "La Cosa" - oltre alla conferma di Russell nei panni
dell'eroe/antieroe, alla cornice avventurosa (la base eremo/fortino tra i
ghiacci), il fascino infido ma seducente della fantascienza-sulla-Terra - si
rifaceva ad un piccolo classico della letteratura fantastica; flirtava in
maniera non prona coi 'generi' (sci-fi, horror, il western col suo collaudato
assedio); utilizzava in maniera discreta lo strumento della citazione (le
immagini in cui i membri della base USA compulsano il materiale video
recuperato relativo all'equipe norvegese intenta a delimitare in cerchio lo
spazio d'atterraggio dell'astronave aliena, rimanda all'analoga scena presente
nel film di Nyby/Hawks); imbastiva sequenze in cui la mdp scivola negli angusti
corridoi dell'avamposto, cambia punto di vista per altezza ed angolazione,
"scruta" discreta ma attenta ambienti e scampoli di attività, lasciando
crescere in modo "morbido" ma inesorabile la suspense e il senso di minaccia
incombente legato a filo doppio a quello d'impotenza; osava un finale di rara
disperazione, ma, soprattutto, si avvaleva d'ingegni tecnici di eccezionale
estro: il terzetto formato da Rob Bottin (ai tempi, ventitreenne), Stan Winston
e Roy Arbogast, infatti - tra ricerca, ideazione, messa a punto e supervisione
- era riuscito ad escogitare per la raffigurazione della "creatura" una varietà
di prototipi meccanici ad "alto tasso di carnalità" che, ancora oggi, si fatica
a considerare meno che strepitosa, tale com'era da spaziare tra ibridi animali
(mammiferi, insetti, pseudo-vertebrati), umanoidi (arti e teste fuse o
"disciolte" le une nelle altre, così come separate dal corpo a promettere
un'ennesima gemmazione), esseri metamorfici intermedi (organi interni a volte
incompleti per scheletri abbozzati di organismi colti ancora nello stadio di
caos polimorfo), per una re-definizione dell'orrore fisico che da quella
epifania non poté fare altro che disporsi all'imitazione o perlomeno tenere
sempre ben presente l'exploit di Carpenter e soci. Tutti aspetti questi,
inoltre, che spingevano la narrazione fantascientifica, da una parte, verso
territori propriamente "horror" che gli anni a venire, grazie alle
individualità mano a mano emerse, avrebbero con sagacia colonizzato, modificato
e alla fine circoscritto, formalizzando nuovi paradigmi; dall'altra, su
sentieri più laterali, tipo quelli riconducibili all'"abrasione" progressiva
della figura dell'eroe come individuo che diffida/e' indifferente/e' ostile ai
valori della società che e' chiamato/costretto a difendere, o quelli attinenti
uno sguardo, potremmo dire, "politico", teso cioè ad intravedere nelle
trasformazioni del corpo solo la metafora più plateale di manipolazioni ben più
profonde e sottili - della psiche, dei comportamenti, del modo stesso di
percepire la realtà e gestire il complicato cosmo delle relazioni
interpersonali (su cui proprio Carpenter tornerà una manciata di anni più tardi
con "They live"/"Essi vivono") - le cui risultanze a tutt'oggi fanno parte del
brodo di coltura di speculazioni in perenne aggiornamento nei più diversi campi
dello scibile, parte dei quali ancora tutti da costruire.
Come spesso accade, in ogni caso, il tempo si e' poi incaricato di comporre
questa piccola vicenda di Cinema in un ordine più prossimo allo stato dei
fatti, guadagnando al film un numero di estimatori sempre più vasto e a
Carpenter persino la fama di uno tra i padri nobili del "fanta-horror".
Medaglia, quest'ultima - come tutte le attestazioni "postume" dal sapore
eccessivamente dolciastro, tipico degli zuccherini a titolo risarcitorio - che
il regista di Cathage si e' ben guardato dall'appuntarsi, continuando a mettere
insieme lavori baciati da varia fortuna e, come e' ovvio, da alterna
ispirazione ma sempre riconoscibili per un inconfondibile tocco personale.
TFK