martedì, gennaio 13, 2015

Film Telecomandati: "The outlaw Josey Wales"/"Il texano dagli occhi di ghiaccio"


di: C.Eastwood.
con: C.Eastwood, S.Locke, J.Vernon, "Chief" Dan George.

- USA 1976 - 135'

Stati Uniti, seconda meta' del secolo diciannovesimo. Josey Wales e' un uomo qualunque. Vive in un podere strappato ai boschi da qualche parte del Missouri, con moglie, un figlio di pochi anni e una semplice idea di vita solitaria e tranquilla. Una specie di equilibrio, insomma. Evidentemente al mondo non piace l'equilibrio - magari non la versione datagli da Wales, chissà - Sta di fatto che glielo strappa di mano, nelle vesti di un manipolo di soldati nordisti sbandati che fanno scempio della famiglia, distruggono i suoi scarsi averi e lo abbandonano credendolo morto. A Wales, che s'è era sempre tenuto alla larga dalla Guerra Civile, non resta che aggregarsi agli ultimi gruppi di sudisti in circolazione per cercare di ottenere vendetta, non avendo alcun interesse di parte da sostenere o una causa cui aderire. Quando - rifiutata la resa - risponderà con la strage alla strage perpetrata dai nordisti - per mezzo di un trabocchetto - ai danni di ciò che resta dei suoi commilitoni che avevano accettato di deporre le armi [scena malamente citata e resa enfatica da Costner nel suo "Balla coi lupi" (1990)], diventerà un reietto e un ricercato. S'aprirà così per lui una lunga peregrinazione attraverso le terre devastate dalla guerra, nella desolazione umana e morale di uomini e donne ridotti al più ferino stato di autoconservazione. Lungo il tragitto raccoglierà intorno a se' - al di la' delle sue stesse intenzioni, catalizzatore ideale, prima che figura autoritaria - un curioso e variegato assortimento di disperati: una squaw sottratta alle angherie di un bruto intrallazzatore; un vecchio capo indiano vagabondo; i superstiti di una carovana - due vecchi, una donna anziana e la sua giovane nipote, Laura Lee (Sondra Locke, da qui per Eastwood compagna di vita e di celluloide per oltre un decennio) -: addirittura un randagio macilento, di quelli che s'incontravano nei film di John Ford, per intendersi. Con loro, regolerà i conti con il passato, lotterà per difendere il presente, stringerà un patto di leale vicinanza con una tribù indiana e proverà a ricominciare a vivere.


A quarantasei anni Eastwood - qui alla quinta regia e ad una nuova co-produzione Malpaso - dopo le prove d'attore con Sergio Leone e soprattutto con Don Siegel, si sentiva pronto a dire la propria in filigrana su certi aspetti della società americana del periodo, tanto da non esitare, per aggiudicarsi la storia, ad estromettere lo sceneggiatore Philip Kaufman (quello che si sarebbe cimentato con "L'insostenibile  leggerezza...") chiamato a dirigerla e ad accollarsi gli oneri della multa comminatagli dall'Associazione dei Registi Americani in conseguenza del suo colpo di mano. Il chiaro intento di Eastwood, esemplificato nelle vicende del laconico Josey (evitiamo di dilungarci più di tanto sull'idiozia del titolo italiano che, tra l'altro, allude ad un texano inesistente, provenendo Wales dal Missouri), uomo ferito e rabbioso, che nella vendetta non cerca redenzione ma probabilmente persino la propria stessa morte, e' quello di capire se in un America stravolta e umiliata dalla guerra (al tempo delle riprese, gli echi ancora freschi e dolorosi del Vietnam, come ai giorni di Wales la Secessione), dalla sfiducia nelle istituzioni e nella legge (il disorientamento conseguente al non ancora esaurito caso Watergate e la riluttanza del mondo degli stati del Sud ad accettare una volta per tutte il nuovo ordine imposto dai vincitori del Nord), e' possibile ristabilire le condizioni per un altro contratto sociale, un rinnovato patto tra gli uomini, fondato sull'inclusione, sulla solidarietà, sull'impegno a non lasciare indietro nessuno, allo scopo, se non di edificare l'armonia in terra, almeno una convivenza pacifica.
Accusati spesso di mancanza di mezze misure, di rozzezza ideologica, di cinismo, Eastwood e lo stesso Siegel, a cui Eastwood guarda spesso, sembrano essere - e questo film ne e' ulteriore conferma - più i cantori di un idealismo deluso o tradito che i simpatizzanti di un pensiero reazionario ottuso e fintamente tutto d'un pezzo. Wales che uccide e si fa giustizia da se' e' un uomo schiacciato dagli eventi, vittima della Storia, a cui risponde con i mezzi che ha. Da un lato, per sopravvivere; dall'altro, per non arrendersi ad una china impietosa e avvilente che sembra trascinare tutto. Ciò non lo giustifica dal punto di vista morale: e' utile pero', cinematograficamente parlando, a definirne l'orizzonte psicologico e quindi i limiti del suo agire. Più o meno quello che si può riscontrare nel "Dirty Harry" di Siegel in un contesto metropolitano, in teoria più organizzato dal punto di vista della legge e dell'ordine di quanto non la sia una Nazione allo stato nascente, spesso e volentieri regolata solo dal sistema ricompensa/punizione della Frontiera.



Fotografato meravigliosamente da Bruce Surtees nei toni dell'ocra e della sabbia - i colori del sangue e della luce crepuscolare ma pure della mestizia e del rimpianto, così come della fermezza e della voglia di resistere - Eastwood compone - con in testa il suo riluttante fuorilegge - una sorta di lucida epopea degli ultimi, un'utopia di riconciliazione dal basso, in linea con la quale non e' follia pensare di poter, un giorno o l'altro, intonare insieme "The rose of Alabama" senza lacrime ma con un sorriso.

in onda martedì 13/01, alle 21 su IRIS


TFK

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