Fondazione Cineteca Italiana presenta:
Xavier Dolan-"Mommy" e 4 anteprime
J'ai Tuè Ma Mere
di Xavier Dolan
con Xavier Dolan, Francois Arnaud, Anne Dorval
Canada, 2009
durata, 100'
In pochi avrebbero il coraggio di urlare al mondo intero “J'ai tué ma mère”, eppure questo è il titolo che Xavier Dolan, a soli sedici anni ha scelto per la sua prima sceneggiatura, trasformatasi quattro anni dopo in una pellicola accolta da otto minuti di standing ovation alla 62ª edizione del Festival di Cannes. Hubert (interpretato dallo stesso Dolan) vive in un dozzinale appartamento della periferia di Montreal con la madre Chantale (Anne Dorval). Il rapporto tra i due è nutrito da una profonda e velenosa rabbia reciproca, scaricata in interminabili litigi quotidiani. Hubert non va bene a scuola, è volubile e ostile e, per aumentare il fastidio della madre, abbandonata alla sua sola fragilità nella gestione della casa e nell’educazione del figlio, utilizza le parole come proiettili con cui colpire e uccidere ogni possibilità di pacifica convivenza. Gran parte della tensione potrebbe avere a che fare con il senso di colpa che affligge il ragazzo a causa della relazione d’amore che lo lega ad Antonin (François Arnaud). Per evadere da questa situazione egli trascorre gran parte del tempo a casa del compagno, che vive assieme alla madre (Patricia Tulasne), una donna al passo coi tempi, felice che i ragazzi dormano assieme e facciano occasionale uso di droga, quindi diametralmente opposta alla cupa e stanca Chantale. Quest’ultima manca totalmente di quella sensibilità che il giovane Hubert agogna – divertente la scelta di onorare Antoine e la madre col cognome di Rimbaud-, e che gli fa dire “vorrei essere il figlio di chiunque, ma non quello di mia madre” .
Venti anni fa, l'identità sessuale di Hubert sarebbe stato il punto di un film come questo, ma ora, saggiamente, Dolan utilizza questo elemento solo come un ingranaggio della tensione complessiva della narrazione, piuttosto che come suo centro propulsivo. J'ai tué ma mère è innanzitutto grande teatro del quotidiano, così lucidamente presentato che è difficile non sentirsi parte di quelle esistenze che si rincorrono sullo schermo. Dolan ritrae caratteristiche individuali di queste due persone e al tempo stesso anche qualcosa di universale sulla relazione tra adolescente e genitore. In quest’opera prima fa sfoggio narcisistico di molte delle note stilistiche che caratterizzeranno la sua successiva produzione, passando con agilità dal bianco nero a scritte sovraimpresse. Alcuni tic registici sono estremamente funzionali a conferire alla non-azione un senso di immane incomunicabilità: spesse volte i personaggi sono ripresi isolati, al margine dell’immagine fotografica, sebbene si trovino allo stesso tavolo o costretti vicini dallo spazio angusto dell’abitacolo di un’automobile. Non manca una buona dose di melanconico citazionismo – dallo slow-motion di Wong Kar-Wai ad una narrazione che cresce sulle orme dei 400 colpi, per non parlare poi di una scena in un locale che pare uscita da Vivre sa vie–, ma sarebbe sterile soffermarsi su questi elementi mentre Dolan, talento poliedrico, si è eccellentemente misurato contemporaneamente col ruolo di attore, regista, sceneggiatore e produttore.
Lungi dall’essere presagio di un risvolto horror, il titolo del film fa riferimento a quell’omicidio che il protagonista, alla stregua di qualunque figlio, vorrebbe e dovrebbe compiere, quell’assassinio che consente di eliminare la propria madre per crescere. Una sceneggiatura brillante e davvero coinvolgente rende digeribile una sintassi filmica fin troppo eterogenea, ma resa necessaria dalla stasi in cui requia l’azione. A ben guardare infatti, non ci sono reali drammi esistenziali che motivino l’insaziabile rabbia dei due protagonisti, oltre al fatto che è tanto difficile accettare di essere “uccisi”, quanto lo è vedersi recidere il cordone ombelicale.
Erica Belluzzi
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