giovedì, settembre 21, 2023

LUBO

Lubo

di Giorgio Diritti

con Franz Rogowski, Valentina Bellé, Joel Basman

Italia, Germania, 2023

genere: storico, drammatico

durata: 181’

Presentato all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Lubo è uno dei film italiani in concorso, diretto da Giorgio Diritti.

Il film, prodotto da Indiana Production, Aranciafilm, Rai Cinema, hugofilm features, Proxima Milano, è distribuito da 01 Distribution.

Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui. (Fonte: La Biennale)

Un giro (quasi) a vuoto quello che fa Lubo alla disperata ricerca dei propri figli. Ma in realtà una ricerca che va oltre e che va a scavare nell’identità di chiunque, anche nella giustizia.

Forse una lunghezza non del tutto necessaria per raccontare, anche con dovizia di particolari, la vicenda che colpisce Lubo Moser, così come tanti altri, costretti a vedersi sottratti i propri cari e le proprie libertà.

Un artista di strada e, quindi, un’anima destinata a non rimanere confinata in un luogo e in una vita e soprattutto a non seguire rigidamente e meccanicamente delle regole. Da qui parte il racconto di Giorgio Diritti, mostrando una famiglia di artisti che si esibisce, tra musica, colori, applausi e tanto apprezzamento da parte del pubblico. Un tono, sia visivo che sonoro, destinato, però, a cambiate radicalmente già nella sequenza immediatamente successiva con prevalenza di toni scuri e cupi che a malapena fanno vedere i personaggi e le loro azioni. Si fa fatica a riconoscere lo stesso Lubo nel bosco, così come le sue azioni e tutto ciò di cui si impossessa.

Le ombre che si susseguono sullo schermo sono le ombre che lo stesso Lubo porta con sé. Prima ci sono quelle metaforiche a sottolineare la perdita della moglie (e dei figli) e la perdita di quella che è ed era la sua ragione.

Poi, nel momento in cui comincia a elaborare la situazione e capire come poter agire, la scena inizia a farsi più chiara e nitida. Anche lo spettatore si accende con lui e comincia a comprendere le ragioni del suo comportamento, salvo poi perdersi nuovamente in una ricerca quasi vana.

Lo scopo principale di Lubo sembra venire meno dopo i primi momenti, quando lui decide di compiere un viaggio troppo largo per raggiungere il proprio obiettivo. Inesorabilmente passa in secondo piano la sua volontà e, giunti alla metà del film, viene da interrogarsi sull’intento perseguito.

Ad accompagnare la ricerca, oltre all’uso simbolico di luci e ombre, ci sono naturalmente la musica e i suoni. Molto silenzio accompagna le azioni del protagonista, soprattutto le più crudeli (ma non per forza violente), rotto spesso da urla o suoni naturali.

E poi c’è il valore simbolico (e quasi catartico) della musica, in modo specifico quella creata da Lubo. In quanto artista, la musica è uno dei suoi elementi e a lei si affida nei momenti più bui. In un primo momento quando deve arruolarsi, rimasto solo e privato di tutto e di tutti trova conforto soltanto nel suo strumento. E sempre lo strumento è ciò che lo rende libero, nonostante la privazione della libertà stessa. Quel momento, seppur breve, che gli viene concesso per dare libero sfogo alla propria musica e, quindi, alla propria arte è motivo di ritrovamento. È stato privato di tutto, non è riuscito a ottenere niente e si è reso conto che la giustizia, invece di aiutarlo, lo ha accusato. L’unica cosa che gli resta è, quindi, la musica. La sua ancora di salvezza.

Su una questione ci interroga il film di Giorgio Diritti: qual è la giustizia? Esiste davvero? La vita e le vicissitudini di Lubo sembrano dire il contrario. Ma sta allo spettatore andare a fondo e capire il vero motivo di questa spasmodica ricerca di un giusto e di uno sbagliato. Da che parte stare? Anche gli esiti, simili eppure così diversi, delle famiglie e dei figli del protagonista sembrano voler sottolineare questa riflessione.

Se la sorte dei primi è in balia del destino e diviene poi palese solo a posteriori, quella dei secondi è più nascosta e dilatata nel tempo. E, quindi, a Lubo non resta che sacrificare i propri ideali per sperare di ottenere quello che ha sempre cercato in vita. Una vita trascorsa tra silenzi e sofferenze, negli anni, indicati dalle didascalie che diventano necessarie per comprendere uno scorrere del tempo visivamente assente.

Ultimo dettaglio da non trascurare la precisione e l’attenzione linguistica che Diritti riserva al film e al protagonista. Oltre a spostarsi geograficamente, il film si sposta anche culturalmente e lo fa facendo parlare lo stesso Lubo in lingue diverse. Se inizialmente ci viene presentato utilizzando il tedesco e lo jenisch, successivamente inizia a parlare in italiano. Non soltanto l’abile Franz Rogowski si cala completamente nel personaggio, ma anche lo stesso Lubo, come una sorta di camaleonte, assorbe tutto quello che lo circonda e cerca di mimetizzarsi nella realtà in cui si trova (costretto) a vivere. Rimasto solo, e nomade per natura, cerca di adattarsi al meglio. E lo fa partendo proprio dalla lingua.

Una vendetta studiata in ogni, fin troppo minimo, dettaglio.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

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