domenica, luglio 30, 2017
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
sabato, luglio 29, 2017
INTRODUZIONE A MICHAEL BAY: UN'APOLOGIA
Introduzione a Michael Bay: un’apologia
“Bisogna essere assolutamente moderni”
- A.Rimbaud -
Qualora l’alieno impersonato da Bowie per Roeg si ritrovasse una seconda volta a cadere sulla Terra (“The man who fell the Earth”, 1976) e di nuovo rimanesse incuriosito dalla pervasività delle immagini - nel frattempo divenuta tragicamente ossessiva - in particolare fosse irretito da quella loro frenesia accumulativo-combinatoria a ciclo infinito che caratterizza la cosiddetta tarda modernità, sarebbe difficile che la sua attenzione non venisse catturata da qualche cascata di fotogrammi a firma Michael Bay. Questo, in linea generale, per dire che, se la perizia di un autore, intesa nello specifico come aderenza ai propri tempi e ulteriore inclinazione a forzare lo sguardo oltre l’orizzonte degli stessi, si misura non secondariamente a partire dalla di lui capacità d’intuire ciò che non c’è ancora trasfigurandolo con l’immaginazione in quello che potrebbe essere, ebbene Bay, in sincronia con un parossismo che, come detto, non appartiene in primis al suo Cinema, va inserito nella medesima cabina di pilotaggio dell’ipotetica astronave lanciata alla ricerca di scenari fisici e interiori inesplorati, come di mondi latamente altri, assieme ai vecchi Scott, Cronenberg, Cameron, Zemeckis, Besson, Glazer, Abrams, (solo per citarne alcuni); ai giovani Edwards, Jones, Garland, Shyamalan, Joon-ho, Villeneuve, le Wachowski (citandone altri): magari non (ancora) con le mani sui comandi ma sempre meno agilmente confinabile nel ruolo esornativo di fenomeno talentoso-ma-impulsivo preso a tracciare rotte strambe magari in combutta con un altro bislacco irregolare, il coetaneo Whedon.
Innegabilmente, l’accelerazione a cui le nostre vite sono state (e sono tuttora) sottoposte ha originato ripercussioni rilevanti pure in quegli ambiti di non immediata evidenza o nei confronti dei quali la sensibilità, il gusto, una qual interessata cautela, nicchia ad accettarne l’eventuale violazione: parliamo di strutture narrative consolidate; di semplificazioni progressive nel tratteggio delle psicologie dei personaggi fino alla più accessibile esemplarità; d’incerta verosimiglianza d’ambientazione; di labili nessi spazio-temporali; di torsione inaspettata di emozioni, sentimenti: di rinegoziazione sistematica dei rapporti. Ciò significa, in via preliminare, che qualunque atteggiamento si voglia assumere riguardo a Bay e al suo rutilante armeggiare con gli strumenti della Settima Arte, non si può prescindere dalla duplice e consequenziale ammissione per cui le predette ripercussioni si sono via via concretizzate in trasformazioni radicali e che Bay, da par suo, se n’è fatto interprete. E’ di tutta evidenza, infatti, come la peculiarità più vistosa di questo Cinema adrenalinico e d’immediata fruizione - d’epidermide smagliante ma qua e là percorso da schegge di presaga irrequietezza - a dire il suo slancio iper-cinetico e di norma convulso, proceda di pari passo con l’accelerazione inesausta (e relativa usura) non tanto e non solo del prodotto/merce immagine, quanto della scansione del ritmo in irresistibile crescendo con cui oggigiorno ciascuno tenta di rincorrere il flusso della propria vita individuale, tanto da ridurre a rango di frase ritrita il comune intercalare secondo cui non c’è mai tempo. Ne “La religione dei consumi” George Ritzer riflettendo sul lavoro di David Harvey (geografo, sociologo e politologo britannico) nota che quest’ultimo ritiene che la compressione del tempo e dello spazio, caratteristica della modernità, abbia subito un’accelerazione nell’età post-moderna che ha portato a una palese accentuazione del fenomeno. Più o meno l’ambiente in cui Bay si muove per orchestrare le sue estremizzazioni - in specie nella saga dei Transformers (dal 2007) - e al quale imprime un ennesimo rimescolamento/avvitamento in direzione d’una frenesia visiva capace, nelle sequenze più esasperate, di ridisegnare le modalità della percezione spostandone i limiti, ovvero disgregandone le consuetudini in una sorta d’intensificazione sensoriale ancora tutta da indagare, in cui l’erosione delle barriere tra spazio e tempo (non trascurando la materia udibilein cui tale alterazione si attua, ovvero la funzione pregnante svolta dal suono nelle operazioni d’intrattenimento di massa) oscilla talmente tra meraviglia e sovrabbondanza della stessa da travalicare l’affermazione proprio di Ritzer per cuil’implosione delle barriere temporali è di per sé stessa uno spettacolo; rovesciare quella celebre di Debord che recita lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine, andando infine a lambire, non sappiamo ancora con quali esiti, una possibile variante dell’ammonimento di Baudrillard circa l’inferno dell’uguale. Come che sia Bay - il suo Cinema - di fatto s’affianca - e come pochi altri risponde sopravanzandole sovente - alle tensioni che pulsano nel corpo mutante d’una società in esausta transizione tra i vicoli ciechi del materialismo terminale e gli intermittenti vagiti d’insperate nuove consapevolezze; tra cupi presentimenti di un tramonto definitivo della Storia in foggia di conflitti non più sanabili o di onnipervasive tirannie plutocratico-scientifiche e ancora indistinte rinascite, a mo’ di fusione calda tra apparati tecnologici propriamente detti e gli organismi lato sensu naturali, nella prospettiva ben delineata da R.Eugeni ne “La condizione postmediale”, con riferimento alla quale, e in sintesi, la disseminazione polverizzante della tecnologia nelle vite e nell’esperienza dei soggetti possiede un effetto determinante: essa implica la vaporizzazione dell’opposizione tra naturale e artificiale quale strumento culturale pertinente nell’interpretazione dell’esperienza.
Guardando, poi, un po’ più da vicino e soffermandosi sulla ricorsività di alcune tematiche palesi o sottese nei singoli film, risulta interessante sottolineare la tendenza a proporre, per quanto schematicamente in una prassi narrativa orientata da sempre più all’efficacia che all’approfondimento, un modello di convivenza che privilegia il rapporto paritario dell’amicizia (scanzonato e ridanciano nei due “Bad boys”; tormentato e competitivo in “Pearl Harbor”; dagli esiti tragico-paradossali in “Pain and gain”; leale e solidale in “13 hours/The secret soldiers of Benghazi”) o quello centrato su gruppi parentali allargati (il segmento recente dell’epopea Transformers vede costituirsene via via uno fondato sul sodalizio umani & metallici con al centro M.Wahlberg/C.Yeager), al legame tradizionale familiare, rigidamente statuito, spesso conflittuale, di fondo difettoso, spia in sedicesimo - quest’ultimo - e su un piano metaforico d’una fascinazione equivoca per un reazionarismo più o meno guerrafondaio, chissà quanto sudditanza strisciante a una tentazione di supremazia manifesta a stelle-e-strisce e quanto invece sintomo più subdolo ed elaborato d’una ambivalente ricognizione attorno al concetto sempre più inviso oltreché sminuito di autorità, nel senso della sua sostanziale assenza/carenza (assenza/carenza dei padri, innanzitutto - e in filigrana dello Stato/Patria - ossia di figure/istituzioni credibili in grado di rappresentare esempi da seguire nell’inarrestabile svuotamento di senso di valori peraltro già da tempo ridotti a poco più che simulacri propagandistici: integrità, rispetto, lealtà, coraggio, altruismo… - si pensi al cameratismo stanco e all’inerzia disillusa dei militari impiegati in una difesa semi-suicida nel già menzionato “13 hours…” o all’enfasi che la latitanza dei predetti valori riveste nel ciclo Transformers -), preda facile di una nostalgia risentita, pronta, in mancanza di controparti convincenti, a declinarla nella sua più comoda ma di fatto ineluttabile accezione conservatrice/edificante o a rigettarla tout court scommettendo su una ridefinizione radicale ancora da compiersi.
Discorso analogo può essere costruito attorno al legame devozionale stretto da Bay con la Tecnologia intesa come strumento per costruire mirabilia (Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è affine alla magia, sollecita A.C.Clark) e come oggetto di riflessione estetica candidato ad assumere su di sé il fardello di alternativa inedita ma logica al costante e mesto arretramento dell’umano. Concentrando l’attenzione sul gruppo di lavori aventi per protagonisti i colossi Hasbro, giunto oggi al suo quinto capitolo, e ridimensionando la sua portata di veicolo di sincretismi e analogie disparate (da ovvi echi messianici a rimembranze letterarie e cinematografiche sparse, compresse e alla bisogna omogeneizzate, derivate perlopiù dal canone mitico Occidentale - quelli e queste di preferenza maneggiati come mere impalcature affabulatorie -), il tratto rivelatore che emerge - e che, per taluni aspetti, risponde a quell’assenza non solo materiale di cui s’è parlato - evoca ripetutamente, sebbene a volte approssimativamente, un domani non così lontano in cui la componente artificialedel corpo, in un contesto di modernità avanzata, ossia d’incipiente deprivazione sensoriale (Wahlberg/Yeager, indipendentemente dalla sua peculiarità di eletto, in realtà per complessione e quotidiana dimestichezza d’inventore e aggiustatore provetto, già mostra segni evidenti di compatibilità fisiologica ed emotiva con l’elemento meccanico), potrebbe essere vissuta (invocata ? Ricordiamo l’insistente sottolineatura sul sentire/imparare a sentire/sentire di nuovo sottesa a un’opera come “Ex machina” del succitato Garland) al pari di una mossa estrema ma ineludibile dell’evoluzione e non come blasfema ibridazione. Del resto, la sensualità eccessiva e policroma dei Transformers, con i loro volumi geometricamente asimmetrici e le loro linee irregolari ma stilizzate (in specie quelle dell’impavido Optimus Prime), seppur non priva di reminiscenze antropomorfe, sembra incarnare, a confronto con una limitatezza sapiens oramai più inutilizzabile che importuna, più sfinita che arrogante (La produzione di rifiuti umani o, più precisamente, di esseri umani scartati, è un risultato inevitabile della modernizzazione e una compagna inseparabile della modernità. E’ un ineludibile effetto della costruzione di ordine e del progresso economico - Z.Bauman, "Vite di scarto" -) la versione migliorata (o, se vogliamo, fatale, date certe premesse) di un modello fragile e sorpassato (in Transformers IV si adombra addirittura la metamorfosi metallica di tutte le specie viventi come causa autentica dell’estinzione di massa del Cretaceo), in ogni modo non più al vertice della piramide degli enti perché dimostratosi incapace di adattarsi alle istanze d’una nuova realtà materiale (quindi percettiva) e psicologica, eventualità che Bay prefigura e rimodella film dopo film nel maelström del suo stile concitato e irriflessivo, mutaforme e nevrotico, simile per molti aspetti a uno dei ritratti sbozzato da Carrère sulle già sfuggenti sembianze di Dick: Non era fastidiosamente monomaniacale, come i classici paranoici… Era camaleontico come un bravo attore capace di sentire il polso del pubblico, di indovinarne le aspettative, e se a volte vaneggiava dipendeva dal fatto che si dava troppo da fare per soddisfarle - E.Carrère, "Io sono vivo, voi siete morti" - Per l’appunto: Bay, alla luce delle sue scelte espressive, è di certo uno che si dà da fare per soddisfare le aspettative del pubblico, e che, al di là dei successi e dei buchi nell’acqua, non lesina mezzi e non s’arrovella troppo sulle implicazioni che non siamo spettacolari o proprie di un senso dell’umorismo spiccio, facilmente assimilabile a quello del buddy movie (in Transformers V si oscilla tra cazzeggio e sarcasmo riportando, per dirne una, sulla fiancata di un Decepticon/Auto della Polizia la scritta to punish and enslave al posto della canonica to protect and to serve, o mettendo in bocca a Yaeger battute del tipo: “Ehi, questa non è una start-up. Non lo faccio per il denaro ma per la causa”). Pur, come visto, in forza soprattutto d’una corrispondenza serrata - ma si potrebbe dire brutale - con la contemporaneità, tale a volte da anticiparla originando, per prossimità, per sovrapposizione, per contrasto, interrogativi che di quella contemporaneità sempre più simile a un’industria della felicità in agonia costituiscono il parzialmente rimosso o scampoli di zona d’ombra, e in relazione ai quali i frequenti appunti, ad esempio, circa un catastrofismo cervellotico e puerile - nemmeno vivessimo in chissà quale idillio consapevole e maturo - finiscono per infrangersi sullo strato più esterno della corazza di un Cinema che riesce ogni volta a rilanciare sulla propriamodernità grazie a una baldanza/spregiudicatezza superficiale (il che non vuol dire ottusa ma letteralmente di superficie, in dialogo serrato cioè con un mondo, il nostro, oggi come oggi quasi unanimemente votato alla superficie) e a suo modo vitalistica.
Per altre vie, meno intuitive ma più curiose, diviene persino intrigante, allora, leggere le cornici iperboliche e le scorribande apocalittiche del cineasta californiano, quel loro costante tendere a una sorta di cedimento/oltrepassamento percettivo. Per esempio, nell’inquietante affinità riscontrabile tra certi estri distruttivi resi possibili dalle meraviglie digitali e le non meno devastanti - viste le proporzioni e le conseguenze reali - esplosioni cicliche di bolle speculative del mercato finanziario globale. Entrambi i fenomeni, invero, esaminati dal versante della mera sensazione, alla lunga lasciano pressoché inerte colui che vi assiste/li subisce, avvolgendolo nella medesima membrana d’impotente ineluttabilità. Anche per tale motivo, in definitiva, (il Cinema di) Bay andrebbe messo in conto e visto più come specchio deformante/deformato dell’attualità - del suo neo-infantilismo indotto dall’invadenza tecnologica; del sapore sovente stantio delle sue narrazioni; della placida assuefazione al denaro e alla violenza come spettacolo o dal montare sordo ma persistente d’istanze liberticide, et. - che liquidato e/o brandito tipo parafulmine per contraddizioni forse non più componibili - un diffuso senso d’estraneità; un profondo disgusto esistenziale; rabbie e rancori senza oggetto; noia, angoscia e frustrazione come inseparabili compagni di viaggio, et. - Ne guadagnerebbe, per quanto piccolo possa essere il contributo, il senso critico necessario a dipanare quest’intreccio sempre più contorto che è l’attuale quotidiano, risparmiandoci per una volta lo sguardo sconcertato, rapace o sprezzante di qualcuno caduto sulla Terra.
TFK
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venerdì, luglio 28, 2017
IL GIORNO IN PIU'
Il giorno in più
di Massimo Venier
con Fabio Volo, Isabella Ragonese
Italia, 2011
durata, 123'
Fino adesso aveva scherzato, ma questa volta è intenzionato a fare sul serio, scommettendo su se stesso come lo farebbe un professionista navigato, di quelli che hanno la gavetta sul groppone e a un certo punto decidono di cambiare, svestendo i panni degli eterni parvenù, di imbucati dell'ultimo minuto, per provare a indossare i vestiti profumati dell'ospite d'onore, quello per cui ci si mette da una parte in attesa di applaudire. Nella carriera di Fabio Volo "Il giorno in più" rappresenta il punto di non ritorno, quello in cui si inizia a giocare a carte scoperte, smettendo di essere qualcun altro. E' come se, in un colpo solo, l'attore dichiarasse una volta per tutte la sua vera natura: scrittore (di best seller), sceneggiatore, e soprattutto protagonista assoluto del film con un ruolo che in altri tempi si sarebbe definito da mattatore. Una centralità testimoniata anche dalla scelta di un regista, Massimo Venier, abituato a traghettare su pellicola ambizioni ancora in embrione, e quindi perfetto per un personaggio cinematograficamente ancora in evoluzione.
Un operazione basata sull'omonimo libro scritto da Volo, e poi sviluppata con la messa in scena di un percorso amoroso ed esistenziale che non sfugge alle convenzioni del genere romantico sentimentale. Giacomo Bonetti, il protagonista della storia, è, nel carattere, narciso ed indolente, e per contesto culturale, costruito su una scala di valori borghesi (il successo, la promozione sociale, il decoro familiare) in cui non sono ammessi colpi a vuoto, un personaggio dal destino già scritto, e per questo drammaturgicamente efficace quando si tratta di metterlo in discussione, facendolo collidere con quello di Michela (Isabella Ragonese), la ragazza di cui Giacomo si innamora, a differenza di lui spinta da un dinamismo che la sta portando lontano dall'Italia, alla ricerca di nuovi scenari, lavorativi ed esistenziali. Personaggi antitetici ma imbrigliati dalle regole dell'attrazione; il gioco degli sguardi, la cena per farli conoscere, e poi il patto di non innamorarsi uno dell'altro immaginando una relazione a termine, qualche giorno insieme con la possibilità di essere se stessi senza doverne poi pagare il conto con un impegno duraturo. Un accordo fatto apposta per essere sconfessato, non dopo aver messo in piedi una serie di situazioni che, nel caso di Giacomo sembrerebbero andare dalla parte opposta, con la vita quotidiana, sempre pronta a chiedere il conto sotto forma di doveri famigliari, le visite alla madre che lo vorrebbe affettivamente sistemato, responsabilità lavorative, verso l'azienda che gli assicura un esistenza più che dignitosa, relazioni amicali, vissute più come estensione del proprio ego che nello spirito di una vera e propria condivisione. L'appuntamento con l'amore porterà con sé una maturazione che nel film in questione assomiglia ad un racconto di formazione con qualche anno di ritardo, per l'età più che adulta del suo protagonista. Un segno dei tempi, se si dà retta alle statistiche di una gioventù adagiata in un' eterna fanciullezza, un marchio di fabbrica, se si ragiona secondo la filosofia del suo autore, abituato a ragionare con la leggerezza quasi infantile, di chi sembra di non avere mai nulla da perdere.
Girato in maniera classica tra l'Italia e gli Stati Uniti, ennesima trasferta americana del cinema italiano più recente, "Un giorno in più" è una commedia sentimentale inevitabilmente condizionata dall'immaginario del suo protagonista. Il quale, pur accaparrandosi il punto di vista della storia ed una presenza quasi fissa in ogni centimetro di pellicola, riesce a non far pesare questo fatto per un understatement sempre a rischio di qualunquismo - in questo senso è esemplare la scena d'apertura in cui di fronte alla fidanzata che lo sta lasciando non trova niente di meglio che preoccuparsi di finire la sua colazione - ma capace di trasmettere una sincerità che mette a proprio a agio. Lo stile colloquiale e mai urlato, insieme ad una propensione per il sesso femminile giocato sempre in sottrazione, fanno di Volo un protagonista capace di donare al film un eleganza d'altri tempi. A questa gentilezza concorre sicuramente Isabella Ragonese, già protagonista di un cult del cinema romantico giovanilista ("Dieci inverni", 2009), e qui chiamata a dare sostanza al ruolo di una donna in bilico tra la tentazione di lasciarsi andare e la paura di essere nuovamente ferita. Prodotto da Beppe Caschetto già nelle sale con "Scialla", "Un giorno in più" non è un film trascendentale, ma neanche qualcosa di cui vergognarsi, anzi, siamo certi del contrario.
(pubblicato su ondacinema.it)
giovedì, luglio 27, 2017
THE BOURNE ULTIMATUM
The Bourne Ultimatum
di Paul Greemgrass
con Matt Damon, Julia Stiles, David Strathaim
USA, 2007
genere, azione, spionaggio, thriller
durata, 115'
di Paul Greemgrass
con Matt Damon, Julia Stiles, David Strathaim
USA, 2007
genere, azione, spionaggio, thriller
durata, 115'
Action Painting su celluloide con il personaggio e la sua storia risucchiati in un vortice supersonico di rumori, esplosioni e trovate pirotecniche.
La telecamera è un’erinni che si muove nella dimensione spazio-tempo banalizzando le logiche del genere e sacrificando la dimensione drammaturgica al sabba delle immagini. Il tentativo di risollevare le sorti di un genere asfittico e senza idee passa attraverso la sua destrutturazione, tanto necessaria quanto penalizzante sul piano dell'immaginario collettivo e della consistenza filmica: così Bourne/Webb, creato dal sistema come alternativa al modello bondiano, dimentica le sue origini, si libera dalla dimensione cinematografica per diventare il Logo imprescindibile di una saga che vive della sua luce riflessa e si reinventa copiando se stessa.
Se in Miami Vice, Michael Mann, facendo proprio il concetto di storia come flusso di coscienza ed elevando il tempo a protagonista assoluto, strumento ordinatore di una realtà comunque estranea ed indefinibile, aveva liberato la detective story dai limiti di un genere incapace di dominare la complessità dei fattori in gioco e la moltitudine di varianti connesse con il processo di decifrazione e conoscenza del dato, qualsiasi esso sia, Paul Greengrass opera uno scarto successivo stordendo lo spettatore con un ritmo compulsivo e sincopato che scarnifica il contenuto ed enfatizza la ripetitività del gesto e dell'azione. Bourne è il supremo ologramma di un mondo-immagine dove ogni elemento sembra il riflesso di qualcosa destinato a rimanere sconosciuto e incomprensibile. Banalità assoluta o alba di una nuova epifania? Ai posteri l'ardua sentenza.
mercoledì, luglio 26, 2017
FACCIAMOLA FINITA
Facciamola finita (This Is the End)
di Seth Rogen, Evan Goldberg
con Seth Rogen, James Franco, Jonah Hill, Michael Cena
Usa 2013
genere, commedia
durata 107'
di Seth Rogen, Evan Goldberg
con Seth Rogen, James Franco, Jonah Hill, Michael Cena
Usa 2013
genere, commedia
durata 107'
A ognuno il suo. Negli anni '50 ci fu quello di Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis jr. soprannominato "Rat Pack", a indicare menage attoriali destinati a trasferire la bigger than life
oltre i confini del set cinematografico. La tendenza fu rispolverata a
partire dagli anni '80 con il gruppo di virgulti belli e un po'
maledetti capitanati da Emilio Estevez e Rob Lowe, leader incontrastati
del cosiddetto "Brat Pack", soprannome modificato quel tanto
che serviva a sostanziare uno stile di vita eccessivo e votato allo
sperpero. Il fenomeno proseguì negli anni successivi con cenacoli dal
volto meno drammatico e più scanzonato: da quello riunitosi attorno a
Ben Stiller in pieno anni '90, all'ultimo arrivato in termini di tempo e
nato dal filone di quella commedia americana demenziale e un po'
cinica, celebrata da Judd Apatow, e frequentata costantemente da tipi
come Seth Rogen, Jonah Hill, Michael Cera e in parte James Franco,
amici prima ancora che attori di riferimento per una buona fetta di
giovanissimi, americani e non.
E sono proprio quest'ultimi nella parte di loro stessi a legittimare il sodalizio grazie all'idea di Seth Rogen, deciso a mettersi in gioco nelle vesti di regista immaginandosi assieme agli amici di sempre, alle prese con la fine del mondo, e soprattutto con le conseguenze di una convivenza troppo ravvicinata. Accade infatti che durante il party di festeggiamento per l'inaugurazione della casa di James Franco si scateni il pandemonio, con fasci di luce che piovono dal cielo, terremoti che squarciano la terra e una pletora di demoni pronti a far razzia di carne umana. Spargimenti di sangue e di paura a cui gli amici si sottraggono solo in parte e per miracolo, asserragliandosi dentro l'abitazione di Franco, trasformata per l'occasione in un vero e proprio bunker. Aspettando gli eventi avranno modo di scoprire gli egoismi e le ipocrisie di un'amicizia messa a dura prova dalla precarietà della loro condizione.
Scritto e anche diretto da Rogen in collaborazione con Evan Goldberg, "Facciamola finita" è un film "sotto mentite spoglie" che nasce all'insegna della commedia per soli uomini, scandita com'è dal solito rap onanistico di parole irripetibili e battute fulminanti, nella quale si innestano forme di cinema che si allargano all' horror e al disaster movie, seppure costantemente annaffiati dal cinismo corrosivo ed esilarante dei suoi intepreti. Rogen solletica il pubblico con la promessa di un voyerismo garantito dalla messa in scena di personaggi reali, chiamati a interagire con un'esistenza da "grande fratello" televisivo - e i continui riferimenti al privato delle star, scandagliato con modalità e bassezze da tabloid scandalistico, forniscono sicuro appeal - e presi in giro per le caratteristiche di una fama, la sua e dei suoi colleghi, costellata di banalità e qualche miseria - si pensi solo alla sessioni di playstation e droga considerate da Rogen e company come il massimo della vita - a emergere è invece una riflessione personale sul cinema e sul mestiere dell'attore. Ecco allora il susseguirsi di morti cinematografiche come quella toccata a Michael Cera, attore "cane" di cui nessuno si dispiace, doppiate da ragionamenti a voce alta in cui l'essenza della finzione non riesce a pareggiare le contingenze della vita, per non parlare della virilità maschile, uno dei miti del cinema americano e qui ridotta al grado zero dagli ammiccamenti di un Rogen spaventato e scosso che trova conforto e si addormenta tra le braccia di due compagni d'avventura. E poi ancora l'episodio della possessione di Jonah Hill e il successivo esorcismo che si fa gioco del genere, smontandolo con freddure come quella riferita al celebre film di William Friedkin (L'esorcista, 1973), preso in prestito quando, per confutarne la presunta filologia, uno dei protagonisti imita senza successo le litanie di Padre Merrin.
Rogen è efficace nel far coesistere la ricchezza dello script con i limiti del budget (il film si svolge quasi tutto in interni) e allo stesso tempo a cucire addosso al suo collettivo i significati di un non sense generazionale che si oppone alle difficoltà con totale disimpegno. Allo stesso tempo però si fa strada la sensazione di uno spettacolo che diversamente da quello messo a punto da Appatow, contaminato sempre di più da larghe porzioni di reale, finisce per girare un po' troppo su se stesso, rasentando l'esercizio di stile. A fronte della ricercata universalità dei temi e all'eclettismo filmico "Facciamola finita" rimane così imbrigliato in una peculiarità che farà felice soprattutto i cultori. In ogni caso quello di Seth Rogen è un esordio non disprezzabile e che assicura la promozione, seppur non a pieni voti.
E sono proprio quest'ultimi nella parte di loro stessi a legittimare il sodalizio grazie all'idea di Seth Rogen, deciso a mettersi in gioco nelle vesti di regista immaginandosi assieme agli amici di sempre, alle prese con la fine del mondo, e soprattutto con le conseguenze di una convivenza troppo ravvicinata. Accade infatti che durante il party di festeggiamento per l'inaugurazione della casa di James Franco si scateni il pandemonio, con fasci di luce che piovono dal cielo, terremoti che squarciano la terra e una pletora di demoni pronti a far razzia di carne umana. Spargimenti di sangue e di paura a cui gli amici si sottraggono solo in parte e per miracolo, asserragliandosi dentro l'abitazione di Franco, trasformata per l'occasione in un vero e proprio bunker. Aspettando gli eventi avranno modo di scoprire gli egoismi e le ipocrisie di un'amicizia messa a dura prova dalla precarietà della loro condizione.
Scritto e anche diretto da Rogen in collaborazione con Evan Goldberg, "Facciamola finita" è un film "sotto mentite spoglie" che nasce all'insegna della commedia per soli uomini, scandita com'è dal solito rap onanistico di parole irripetibili e battute fulminanti, nella quale si innestano forme di cinema che si allargano all' horror e al disaster movie, seppure costantemente annaffiati dal cinismo corrosivo ed esilarante dei suoi intepreti. Rogen solletica il pubblico con la promessa di un voyerismo garantito dalla messa in scena di personaggi reali, chiamati a interagire con un'esistenza da "grande fratello" televisivo - e i continui riferimenti al privato delle star, scandagliato con modalità e bassezze da tabloid scandalistico, forniscono sicuro appeal - e presi in giro per le caratteristiche di una fama, la sua e dei suoi colleghi, costellata di banalità e qualche miseria - si pensi solo alla sessioni di playstation e droga considerate da Rogen e company come il massimo della vita - a emergere è invece una riflessione personale sul cinema e sul mestiere dell'attore. Ecco allora il susseguirsi di morti cinematografiche come quella toccata a Michael Cera, attore "cane" di cui nessuno si dispiace, doppiate da ragionamenti a voce alta in cui l'essenza della finzione non riesce a pareggiare le contingenze della vita, per non parlare della virilità maschile, uno dei miti del cinema americano e qui ridotta al grado zero dagli ammiccamenti di un Rogen spaventato e scosso che trova conforto e si addormenta tra le braccia di due compagni d'avventura. E poi ancora l'episodio della possessione di Jonah Hill e il successivo esorcismo che si fa gioco del genere, smontandolo con freddure come quella riferita al celebre film di William Friedkin (L'esorcista, 1973), preso in prestito quando, per confutarne la presunta filologia, uno dei protagonisti imita senza successo le litanie di Padre Merrin.
Rogen è efficace nel far coesistere la ricchezza dello script con i limiti del budget (il film si svolge quasi tutto in interni) e allo stesso tempo a cucire addosso al suo collettivo i significati di un non sense generazionale che si oppone alle difficoltà con totale disimpegno. Allo stesso tempo però si fa strada la sensazione di uno spettacolo che diversamente da quello messo a punto da Appatow, contaminato sempre di più da larghe porzioni di reale, finisce per girare un po' troppo su se stesso, rasentando l'esercizio di stile. A fronte della ricercata universalità dei temi e all'eclettismo filmico "Facciamola finita" rimane così imbrigliato in una peculiarità che farà felice soprattutto i cultori. In ogni caso quello di Seth Rogen è un esordio non disprezzabile e che assicura la promozione, seppur non a pieni voti.
(pubblicata su ondacinema.it)
lunedì, luglio 24, 2017
SAVVA
Savva
di Maksim Fadeev
Russia, 2017
genere, animazione
durata, 85'
Come volevasi dimostrare a livello di pensiero a differenziare le prerogative delle varie entità statuali c’è rimasto solamente il baluardo rappresentato dalle vecchie ideologie che di volta in volta tornano comodo agli uni per fari finta di essere diversi dagli altri. Sul piano pratico è invece tutt’altra cosa come dimostra nel suo piccolo la globalizzazione culturale presente nel cartoon di cui andiamo a scrivere. “Savva” di Maksim Fadeev appartiene a quella piccola fetta di film d’animazione che per il momento riesce a spezzare l’oligarchia delle produzioni statunitensi, provenendo quest’ultimo da quella Russia che grazie al successo di un brand come “Masha ed Orso” è riuscita a conquistarsi una quota di mercato che oggi permette al lungometraggio di Fadeev di trovare spazio nelle sale cinematografiche di tutto il mondo (non a caso la versione internazionale è doppiata da importanti attori americani). Con la differenza che, mentre la serie prodotta dagli Animaccord Studios si distingueva per una punto di vista fortemente autoctono, fungendo addirittura da organo di propaganda del nuovo corso della politica dell’ex Unione Sovietica, quello di “Savva” appare sia nei contenuti che nei personaggi un compendio dei tanti titoli targati Pixar e company.
Così infatti sembra la vicenda del ragazzino che per liberare il suo villaggio da un branco di Iene che lo tiene in scacco si mette in viaggio insieme a un gruppo di compagni trovati lungo la strada per raggiungere il mago capace di rompere l’assedio degli spietati aguzzini. Dalla fauna antropomorfa, tanto variegata nelle forme quanto differenziata nei suoi propositi, il bestiario animato assolve il compito di rallegrare e spaventare insieme i giovani spettatori, accostando le terribili scimmie che si frappongono tra il nostro e la sua meta finale, ad un campione di forza e di coraggio qual’è Angee, il lupo bianco che aiuterà Savva a sconfiggere i suoi nemici e del tenero batuffolo rosa che risponde al nome di Puffy, al quale spetta il compito di fare da contraltare ai ghigni delle malevoli creature destinate ad ostacolare il percorso dei nostri eroi. Senza farsi mancare canzoni e balletti coreografici “Savva”potrebbe essere una rivisitazione in chiave fantasy dei vari “Il re Leone” e “Madagascar” solo per citarne due, se non fosse per la resa grafica dei disegni che non potendo avere la (costosa) resa grafica e il realismo dei prototipi statunitensi punta dritto su una stilizzazione del tratto che accentuando le fattezze infantili delle figure le rende più vicine al pubblico dei giovanissimi. Detto questo, il fatto di essere un prodotto derivativo non toglie a “Savva” la piacevolezza di una visione che arriva alla fine facendoci affezionare ai suoi protagonisti.
(pubblicato su taxidrivers.it)
sabato, luglio 22, 2017
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
OPERAZIONE CHROMITE
Operazione Chromite
di John H. Lee
con Lee Jung-Jae Liam Neeson,
Corea del Sud
genere, azione, drammatico, storico, guerra
durata, 111'
Una volta li chiamavano film di propaganda per definire quelle pellicole che più di altre si schieravano a favore delle scelte politiche dei governi di una determinata nazione. Dal punto di vista numerico a garantirsi la nomea sono stati soprattutto i film appartenenti al filone bellico, i quali, da Berretti verdi del 1968 a Once Were Warriors girato da Lee Tamahori nel 1994, hanno utilizzato il pathos suscitato dalla morte sul campo di battaglia per costruire discorsi apologetici a favore di questa o quella nazione, giustificate nella loro opera di aggressione o di difesa dalle gesta eroiche dei vari protagonisti. A questo genere di contesto appartiene di diritto il film di John H. Lee Operazione Chromite, ricostruzione dell’operazione che nel 1951 permise alla coalizione delle Nazioni Unite guidata dal generale Douglas Mac Arthur (un Liam Neeson al minimo sindacale) di sbarcare nella baia di Incheon, impedendo all’allora esercito della repubblica democratica di Corea di completare l’invasione di quella parte di territorio – a sud della penisola – che oggi è sotto la sovranità della controparte filo occidentale, denominata appunto Repubblica di Corea.
Nel suo essere strumento di consenso mediatico prima ancora che un prodotto di intrattenimento popolare Operazione Chromite ha dalla sua il fatto di sovrapporsi agli avvenimenti della cronaca contemporanea, ripresa quando si tratta di costruire le psicologie del cattivo – Lim, Gye-jin, il comandante dell’avamposto nord coreano – sulla falsariga del dittatore, a cui non a caso rimanda anche l’ovale dell’attore utilizzato per la parte. Giocoforza, al di là di ogni normale considerazione sulle ragioni degli uni e degli altri, si capisce come diventi impossibile con tali premesse non parteggiare per la squadra di valorosi (l’unità segreta “X-RAY”) che, agendo sotto copertura, si infiltra oltre le linee nemiche per sottrarre informazioni utili ad agevolare lo sbarco degli alleati. In questo senso Lee non si fa pregare, costruendo la vicenda attraverso una serie infinita di scene madri e mediante il confronto di personaggi speculari, con i buoni – sud coreani – belli, virtuosi e disposti al sacrificio al contrario degli avversari, il più delle volte colti in atteggiamenti capaci di superare per spietatezza ogni umana comprensione. Che fossimo lontani dalle riflessioni filosofiche di opere quali La sottile linea rossa e Lettere da Iwo Jima era quasi scontato, ma ritrovarci di fronte a una tale partigianeria sembra quasi un auto goal per gli autori, se non fosse che in patria il film si è rivelato un ottimo successo commerciale, giustificando quindi le strategie dei produttori.
Sotto il profilo cinematografico è invece apprezzabile il pragmatismo degli autori, i quali, concentrando lo spazio dell’azione agli ambienti (ricostruiti in studio) in cui opera il team in avanscoperta, e lasciando fuori campo il grosso degli eserciti, dà vita a un falso kolossal, in cui la grandeur tipica di questi prodotti è risolta da qualche passaggio infarcito di effetti digitali, quel tanto che basta per dare l’idea – ma solo quella – delle possibilità militari messe a disposizione di Mac Arthur.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
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recensioni
venerdì, luglio 21, 2017
PRIMA DI DOMANI
Prima di domani
di Ry Russo-Young
con Zoey Dutch, Halston Sage, Jennifer Beals
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 99'
C’è stato un tempo in cui Hollywood faceva di tutto per preservare le sue produzioni dai dettagli più cruenti del reale, i quali, laddove presenti, si limitavano a funzionare come pretesto per “conversioni” benefiche e consolatorie. Oggi, invece, pur non potendo ascrivere il fenomeno a una vera e propria inversione di tendenza, accade sempre più spesso il cinema mainstream (seppure nel nostro caso prodotto con soldi indipendenti) si apra a forme di realismo che pur lasciando qualche spazio alla speranza, vengono segnate dalle conseguenze di un destino drammatico e ineluttabile. “Prima di Domani” della regista americana Ry Russo-Young risponde in tutto e per tutto al quadro appena espresso, raccontando l’esperienza di una ragazza costretta a rivivere continuamente l’ultimo giorno della sua vita, quello in cui, rientrando a casa da un party studentesco viene investita mortalmente da un camion che sopraggiunge in senso opposto. Se in altri casi - a cominciare dal seminale “Ricomincio da capo” di Ivan Reitman - il paradosso temporale, di per sé inquietante, diventava per lo spettatore motivo di svago e di divertimento, in questo caso a rimanere inalterata è certamente la morale che sottende all’intera questione, come sempre racchiusa nella possibilità di modificare il senso della propria esistenza attraverso la possibilità di riparare agli errori commessi. In questo senso “Prima di domani” si ammanta di una serie di principi classici della filosofia new age (per esempio quello di vivere ogni attimo come fosse l’ultimo) che nei film di questo tipo costituisce oramai una “nuova religione”, capace di sostituire quelle istituzionali con una versione ammorbidita di precetti ampiamente conosciuti come il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” che di fatto ispira l’azione “salvifica” di Samantha.
Così facendo “Prima di domani”, pur mantenendosi nell’alveo del suo genere di riferimento - il teen movie di ambientazione scolastica - e facendo leva sul corpo “divistico” della bella e brava Zoey Dutch (Tutti vogliono qualcosa), si differenzia per l’importanza della matrice spirituale, la quale, alla pari di quanto succedeva in “Colpa della stelle”, sottende a un percorso di emancipazione dalle cose mondane nel quale rientra a pieno diritto l’anomalia del lieto fine, che è tale solo se lo considera alla luce di una prospettiva anti materialistica e ultra terrena. In un quadro del genere non può essere sottovalutata la scelta di inserire la trama in un contesto extraurbano dominato da un clima plumbeo e invernale e dal sublime del paesaggio naturale, decisivi nel creare “un mondo che non c’è”, in cui tutto o quasi diventa possibile.
(pubblicata su taxidrivers.it)
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mercoledì, luglio 19, 2017
TO THE BONE
To the Bone
di Martin Noxon
con Lily Collins, Keanu Reeves
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 107'
Sul rapporto che c’è tra Netflix e il cinema si è parlato molto, perdendo di vista che la piattaforma in questione rimane uno strumento a disposizione di chi alla sala cinematografica preferisce la comodità della visione casalinga, dispositivo a misura di un pubblico poco attratto dai riti collettivi e meno pretenzioso dei cosiddetti cinefili rispetto al cotè autoriale offerto dai palinsesti dell’azienda californiana. Così, se film come “War Machine” e “Okja” hanno in parte deluso le aspettative di quanti si aspettavano di ritrovare sul piccolo schermo lo stesso fulgore che aveva attraversato le opere precedenti di Michod e Bong Joon-ho al contrario può giovare all’abbonato seriale dare uno sguardo a quei titoli cosiddetti “normali”, nati per essere consumati sul piccolo schermo e privi delle responsabilità collegate al culto del loro regista.
Di quest’ultima categoria fa parte “To The Bone” firmato da un’autrice che fin qui si era distinta come regista, sceneggiatrice e produttrice di serie televisive (Buffy) e che per il suo esordio nel lungometraggio ha deciso di cambiare registro, affrontando il tema dell’anoressia attraverso il dramma di Ellen (Lily Collins in un interpretazione da Actor Studio) e dei giovani ospiti della casa dove il dottor Dr. William Beckham (Keanu Reeves) si prende cura dei suoi pazienti attraverso una metodologia alternativa fatta di convivialità quotidiana e regole comuni che diventano il viatico per la possibile guarigione.
Senza la pretesa di diventare documento ma senza sfuggire gli aspetti più forti e crudi della patologia - riportati in qualità di testimonianza ma senza l’enfasi e il patetismo di certo cinema hollywoodiano - “To The Bone” ha il pregio di trovare un equilibrio tra gli aspetti legati all’intrattenimento - collegati ai rapporti affettivi e sentimentali che si instaurano tra i protagonisti - e quelli che invece prendono in considerazione gli aspetti clinici della questione, mediati dalla presenza di Reeves il cui immaginario di eroe cinematografico ben si sposa con la figura del Dr. Beckham, chiamato con il suo carisma e la sua forza d’animo a istillare fiducia sulla bontà della cura nei confronti di chi stenta a credere a qualcosa. Senza dimenticare che il film, facendo proprio l’approccio dell’estroso dottore, evita di impantanarsi sull’approfondimento dei traumi che hanno prodotto il disturbo, quasi sempre forieri di facili sensazionalismi, per soffermarsi con spirito costruttivo sul modo di liberarsene una volta per tutte. Senza dare soluzioni preconfezionate “To the Bone” infonde fiducia e lascia qualche speranza.
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martedì, luglio 18, 2017
OKJA
Okja
di Bong Joon-ho
con Ahn Seo-hyun, Tilda Swinton, Paul Dano
USA, 2017
genere, avventura
durata: 121’
di Bong Joon-ho
con Ahn Seo-hyun, Tilda Swinton, Paul Dano
USA, 2017
genere, avventura
durata: 121’
“Okja” racconta la storia di una profonda amicizia tra un animale creato in laboratorio da una
spregiudicata multinazionale e una giovane ragazza di nome Mija. Lei e il nonno, dieci anni fa,
vennero selezionati per allevare alcuni supermaiali modificati geneticamente, in attesa che i tempi
per poterli vendere sul mercato fossero maturi. Oggi, la fame nel mondo e le scarse risorse
alimentari rendono attuabile il commercio di questa carne. Okja è grande come un ippopotamo e
viene scelto dalla Mirando Corporation come migliore tra tutti i suoi simili. Ne vogliono fare la star
di un reality, in una campagna di marketing per preparare il volgo ad accettare questo tipo di cibo
OGM. Ma non hanno fatto i conti sulla forza del legame tra la piccola protagonista e l’introverso
animale.
Questa storia potrebbe sembrare, a prima vista, una favola di quelle agrodolci di Hayao Miyazaki,
sia per l’ambientazione che per il tipo di racconto fumettistico, naif ed intrinsecamente asiatico.
Non è così, affatto.
La rivoluzione di questo film vive su più piani di lettura. Potrebbe essere una favoletta per ragazzi
ma è anche la possibilità di raccontare sottovoce una critica al mondo delle multinazionali, al
mondo degli animalisti e anche al mondo dei carnivori.
La Mirando Corporation, con in testa il suo spietato CEO portato sulla scena da una sempre
sublime Tilda Swindon, piega stati nazionali e può disporre a suo piacimento di forze speciali e
uomini della polizia. Gli attivisti dell’Animal Liberation Front hanno il cuore grande ma non
sembrano proprio dei geni, mentre le scene del mattatoio fanno riflettere. Non serve andare troppo
in là con la fantasia per capire come il mangiare carne sia moralmente sbagliato, come
l’allevamento intensivo degli animali sia una crudeltà spesso superflua alla nostra esistenza.
Questa pellicola è spietata anche nella sua critica alla società americana, così falsa e di facciata,
così semplice e così ignorante, così in balia dei voleri delle corporations che possono decidere per
lei e per i suoi gusti.
Il film è girato con maestria, in un tripudio di colori e di scene avvincenti. Dietro la macchina da
presa troviamo l’asso coreano Bong Joon-ho, già autore di un capolavoro di nicchia come
Snowpiercer. In pochi visionari sarebbero stati a loro agio nel portare in scena una storia del
genere. Gli attori bravi sono molti, dalla già citata Tilda Swinton a un Jake Gyllenhaal alle prese
con un personaggio diverso dal solito, al Giancarlo Esposito di “Breaking Bad” finalmente sul
grande schermo.
Tutti riescono a dare il massimo, rimanendo però nell’ombra. I personaggi sono quasi tutti di
contorno, le loro sotto-trame rimangono in secondo piano rispetto alla grande avventura principale.
Un ottimo film che apre le frontiere di una produzione cinematografica innovativa.
Riccardo Supino
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lunedì, luglio 17, 2017
THE WAR - IL PIANETA DELLE SCIMMIE
The War - Il pianeta delle scimmie
di Matt Reeves
con Andy Serkis, Woody Harrelson
USA, 2017
genere, azione, fantascienza, avventura, drammatico
durata, 143'
Forzando un po' il ragionamento si potrebbe dire che la 20th Century Fox il suo plusvalore se l'è assicurato ancora prima di girare, quando ha decido di confermare Matt Reeves al centro del progetto dedicato alla saga de Il pianeta delle scimmie. Accade infatti che, contrariamente a quanto avviene nella maggior parte dei blockbuster (peraltro monopolizzati dal brand super eroistico) dove le major fanno a gara nel lanciare allo sbaraglio registi per lo più sconosciuti o, alle prime armi, nel genere in questione i produttori di "The War - Il pianeta delle scimmie" riescono a confermare nel proprio team un regista che nel frattempo (dal secondo capitolo della serie da lui diretto) ha visto lievitare le proprie quotazioni al punto di essere stato scelto per sostituire Ben Affleck nel prossimo film dedicato alle avventure dell'uomo pipistrello. Insomma, non siamo dalle parti di Zack Snyder ma il percorso artistico del nostro sembra avviato a ricalcare le orme dell'onnipresente collega.
Venendo al dunque, qui si trattava di concludere senza troppi strafalcioni una storia suddivisa in tre capitoli, tanti quanto sono i film messi in cantiere dalla Fox, e nata come reebot del modello originale, vecchio di anni ("Il pianeta delle scimmie" di Franklin J. Schaffner è del 1968) rispetto a quello di Rupert Wyatt - "L'alba del pianeta delle scimmie", 2001 - che aveva aperto il nuovo ciclo di avventure tratte dai romanzi di Pierre Boulle. Nello scenario, apocalittico e bucolico come può esserlo un mondo dove gli esseri umani sono stati decimati da un virus che ha trasformato le scimmie nell'anello più forte della catena biologica, più adatte a sopravvivere in un universo ridotto a uno stato primordiale e selvaggio, ciò che emerge in maniera più evidente è il consolidamento della figura di Cesare, il leader dei primati che in questo film assurge a un ruolo che va oltre a quello del semplice protagonista. Destinata a spartire coni i campioni della controparte umana la centralità delle storie, la figura di Cesare si è progressivamente innalzata al di sopra delle altre, relegando avversari e alleati ad apparizioni da semplici comprimari.
Dicevamo però che "The War" fa segnare un ulteriore salto in avanti perché il personaggio interpretato da Andy Serkis nel suo percorso di vendetta nei confronti di chi - lo spietato colonnello a cui Woody Harrelson regala la sua vena di follia - gli ha ucciso moglie e figlio viene sottoposto a una vera e propria trasfigurazione. Accade infatti che Cesare, impegnato in una lotta interiore tra bene e male - con il lato oscuro, inizialmente predominante, e poi destinato a lasciare il posto al buon senso e alla ragione - dia vita ad una serie di azioni, ognuna delle quali concorre a costruirgli addosso un aurea mitologica. La perdita di se stesso, con la decisione di abdicare alla guida del suo popolo, il viaggio all'inferno per giungere al cospetto del proprio carnefice, l'accettazione cristologica del proprio destino e il sacrificio personale che da essa ne deriva, fino alla palingenesi finale su cui non ci soffermiamo per non svelarne le sorprese, sono le tappe di una metamorfosi che non lascia dubbi sull'eccezionalità del personaggio.
Funzionale sul piano drammaturgico, il titanismo del protagonista aveva però una controindicazione, e cioè quella di trovare un contraltare, morale era anche narrativo, all'altezza di cotanto carisma. In questo senso la scelta di un attore dalla personalità debordante come quella di Harrelson non era sbagliata se non fosse che la sceneggiatura di Reeves gli costruisce addosso un personaggio che è la fotocopia con meno chili del colonnello Kurtz di "Apocalypse Now. Una citazione , quella del film di Coppola che "The War" spinge fino alle estreme conseguenze, parafrasando concetti e comportamenti che erano stati del personaggio di Brando, e che in bocca a quello di Harrelson trasportano la vicenda in una sfera di prevedibilità alla quale nuoce non poco la lunghezza di un minutaggio - 143' - troppo esteso per le cose che il film aveva da dire. Diretto con lo sfarzo visivo che ci si aspetta da un blockbuster estivo, "The War - il pianeta delle scimmie" è destinato a soddisfare gli amanti della serialità televisiva e gli appassionati della saga; al contrario, potrebbe lasciare indifferente lo spettatore occasionale, emotivamente estraneo ai personaggi e alle situazioni raccontate nelle puntate precedenti.
(pubblicata su ondacinema.it)
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domenica, luglio 16, 2017
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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sabato, luglio 15, 2017
MISSION: IMPOSSIBLE
Mission: Impossible
di Brian De Palma
con Tom Cruise, Emannuelle Beart, Jean Reno
USA, 1996
genere, azione, spionaggio, thriller
durata, 106'
Prima di dirigere Mission: Impossible (id, 1996) Brian De Palma si trova in una situazione che già conosce: abituato a gestirsi all'interno dei meccanismi imposti dai grandi studios, il regista è consapevole del debito accumulato nei confronti dei suoi produttori, per nulla soddisfatti degli incassi dei suoi ultimi tre film, deficitarii al botteghino, anche in presenza di una matrice più industriale che personale (Il falò delle vanità, Carlito's Way). L'infatuazione di Tom Cruise, deciso a tutti i costi ad assoldare De Palma per dirigere Mission: Impossible, è quindi un'occasione da non perdere per il grande rilancio. Alla pari de Gli intoccabili, il nuovo film è tratto da una serie televisiva e De Palma sembra la soluzione capace di aggiornare il prodotto senza dimenticare la tradizione. Allo stesso modo il regista si trova di fronte un cast all stars che, a parte il divo Cruise, annovera attori europei molto popolari come Emanuelle Béart e Jean Reno.
Favorito dai motivi di una trama che sembra la versione americana delle avventure di 007, e che quindi propone una serie infinita di realtà a doppio fondo, De Palma cambia strategia, confezionando un mainstream con un'impronta autoriale più marcata rispetto alle precedenti esperienze. Fatte salve le concessioni dovute al prodotto di genere, che hanno il loro clou nella sequenza del furto di informazioni dal database della Cia e poi nella rocambolesca caccia all'uomo, risolta sul tetto di un treno che sfreccia a trecento chilometri all'ora, l'anima di Mission: Impossible è quella di un film di Brian De Palma. Le avventure dell'agente Ethan Hunt e della sua squadra sono avvolte in una forma mutevole e stratificata. Dapprima teatrale, quando, all'inizio del film, la scena di un interrogatorio diventa la quinta che si apre su un retroscena, dove il protagonista si toglie la maschera e fa vedere per la prima volta il suo volto. Successivamente thriller, con la disfatta della missione a Praga e l'uccisione dei compagni di Ethan da parte di un misterioso assassino, declinata secondo i dettami di un giallo classico, in cui il killer diventa un'ombra nascosta nel buio e pronta a colpire; complottista, quando l'agente speciale illuminato dalla Dea ragione ricostruisce i passaggi della strage e individua l'identità del colpevole; tecnologica, con un dispiego di congegni speciali e apparecchiature altamente sofisticate, che consentono a chi li usa di guadagnare la partita; e infine sentimentale, quando l'amore di Hunt per una donna bella e pericolosa rischia di mettere a rischio missione e incolumità fisica. Infinite variazioni del medesimo universo che De Palma, in questo frangente, riesce a ricollocare senza perdere nulla in termini d'identità e fantasia. Mission: Impossible spacca i botteghini, diventando il miglior incasso di sempre tra i film del regista. Un primato mai più superato.
Carlo Cerofolini
di Brian De Palma
con Tom Cruise, Emannuelle Beart, Jean Reno
USA, 1996
genere, azione, spionaggio, thriller
durata, 106'
Prima di dirigere Mission: Impossible (id, 1996) Brian De Palma si trova in una situazione che già conosce: abituato a gestirsi all'interno dei meccanismi imposti dai grandi studios, il regista è consapevole del debito accumulato nei confronti dei suoi produttori, per nulla soddisfatti degli incassi dei suoi ultimi tre film, deficitarii al botteghino, anche in presenza di una matrice più industriale che personale (Il falò delle vanità, Carlito's Way). L'infatuazione di Tom Cruise, deciso a tutti i costi ad assoldare De Palma per dirigere Mission: Impossible, è quindi un'occasione da non perdere per il grande rilancio. Alla pari de Gli intoccabili, il nuovo film è tratto da una serie televisiva e De Palma sembra la soluzione capace di aggiornare il prodotto senza dimenticare la tradizione. Allo stesso modo il regista si trova di fronte un cast all stars che, a parte il divo Cruise, annovera attori europei molto popolari come Emanuelle Béart e Jean Reno.
Favorito dai motivi di una trama che sembra la versione americana delle avventure di 007, e che quindi propone una serie infinita di realtà a doppio fondo, De Palma cambia strategia, confezionando un mainstream con un'impronta autoriale più marcata rispetto alle precedenti esperienze. Fatte salve le concessioni dovute al prodotto di genere, che hanno il loro clou nella sequenza del furto di informazioni dal database della Cia e poi nella rocambolesca caccia all'uomo, risolta sul tetto di un treno che sfreccia a trecento chilometri all'ora, l'anima di Mission: Impossible è quella di un film di Brian De Palma. Le avventure dell'agente Ethan Hunt e della sua squadra sono avvolte in una forma mutevole e stratificata. Dapprima teatrale, quando, all'inizio del film, la scena di un interrogatorio diventa la quinta che si apre su un retroscena, dove il protagonista si toglie la maschera e fa vedere per la prima volta il suo volto. Successivamente thriller, con la disfatta della missione a Praga e l'uccisione dei compagni di Ethan da parte di un misterioso assassino, declinata secondo i dettami di un giallo classico, in cui il killer diventa un'ombra nascosta nel buio e pronta a colpire; complottista, quando l'agente speciale illuminato dalla Dea ragione ricostruisce i passaggi della strage e individua l'identità del colpevole; tecnologica, con un dispiego di congegni speciali e apparecchiature altamente sofisticate, che consentono a chi li usa di guadagnare la partita; e infine sentimentale, quando l'amore di Hunt per una donna bella e pericolosa rischia di mettere a rischio missione e incolumità fisica. Infinite variazioni del medesimo universo che De Palma, in questo frangente, riesce a ricollocare senza perdere nulla in termini d'identità e fantasia. Mission: Impossible spacca i botteghini, diventando il miglior incasso di sempre tra i film del regista. Un primato mai più superato.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su http://www.ondacinema.it/monografie/scheda/brian_de_palma.html)
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