Gemma Bovary
di Anne Fontaine
con Fabrice Luchini, Gemma Arterton
Francia, 2014
genere, drammatico
durata, 99'
Sono passati più di centocinquant’anni da quando Gustave Flaubert travolse la letteratura presentandosi al mondo con Madame Bovary –celebre la frase Madame Bovary c’est moi–, ma pare che l’adultera più famosa della letteratura francese abbia ancora qualcosa da dirci. Fortunatamente Flaubert non può assistere all’ennesima banalizzazione del suo romanzo, la cui protagonista è spesse volte trivialmente assimilata al ruolo di meretrice o casalinga annoiata, come è perfettamente in grado di fare Anne Fontaine con Gemma Bovery, presentato in concorso alla 39° edizione del Toronto Film Festival. La Bovary della Fontaine non ha nulla dell’archetipo letterario e cinematografico che ha ispirato intere generazioni di donne a rifuggire la noia e il quieto vivere, né al tempo stesso vuole proporsi quale moderna anti-eroina progressista, ma si accontenta piuttosto di essere un punto d’incontro tra una triste commedia sexy e una meditazione meta-letteraria sul rapporto che intercorre fra l’arte e la vita. Basato sulla novella grafica di Posy Simmonds, la vicenda è narrata in flashback attraverso gli occhi di Martin Joubert (Fabrice Luchini), a partire dal momento in cui legge i diari di Gemma (Gemma Arterton), il cui contenuto andrà ben presto a mescolarsi coi suoi personali ricordi di quel che accadde alla giovane donna. Dal presente della narrazione Martin torna con la memoria al momento in cui, dopo anni di vita parigina decise di tornare in Normandia –regione in cui Flaubert scrisse il suo capolavoro–, per riprendere in mano l’attività paterna assieme alla moglie. L’arrivo di Gemma con il marito Charles (Jason Fleming) scuote completamente la vita e l’equilibrio del pacifico Martin, che in un solo attimo assiste all’ “epilogo di dieci anni di tranquillità sessuale”. Il suo sguardo, implorante e bramoso verso Gemma, tradisce una passione suscitata tanto dal desiderio fisico quanto dal suo personale amore per il romanzo di Flaubert, arrivando al punto di scorgere nella vita di Gemma inquietanti parallelismi con quella di Emma Bovary. Né la regia né la sceneggiatura paiono essere minimamente preoccupate per la profondità tematica di cui il testo originario è portatore, tanto da prostituire la vicenda a mero intrattenimento. Tale leggerezza è anche il più grande difetto della pellicola, poichè risulta difficile trovarsi realmente coinvolti nella vicenda di Gemma. Come l’eroina flaubertiana, la donna vive in una casa fatiscente attorniata da uno splendido appezzamento terriero nella campagna francese, e la sua noia e disaffezione sono il tipo di problema che può permettersi di avere solo chi non ha altre vere responsabilità da affrontare. Considerando il secolo e mezzo che separa le due donne, Gemma è più libera di lasciare in qualsiasi momento una vita banale che non sopporta –e che non per questo la rende una persona non banale, come invece Charles sostiene-, ma per le convenzioni di questa storia, la regista cerca disperatamente di convincere il pubblico che la protagonista non abbia altre possibilità. Se non altro, Fontaine sa come rendere le sue attrici ammalianti e in ogni fotogramma la Arterton è a dir poco luminosa, ritratta come una femme fatale a cui quasi nessun uomo può sfuggire. Ma purtroppo alla fisicità dell’attrice viene attribuita una importanza eccessiva, tale da rendere caricaturale e troppo sospirata –oltre che del tutto fuori luogo– una sequenza in cui Martin le insegna come impastare il pane.
" Gemma Bovery" ha difficoltà a muoversi oltre la superficie della storia. Come narratore, Martin è una figura quasi bidimensionale, la cui psicologia non è assolutamente indagata. Non è possibile spiegare il suo bisogno d’amore senza ricorrere a generiche considerazioni circa l’età e la mancanza di charme della moglie (Isabelle Candelier). Mentre il film prosegue, l’ossessione di Martin per Gemma sfiora il patetico e, come per i vari uomini della vita di lei – il marito, l'amante o l'ex-fidanzato–, anche lui diventa semplicemente una pedina in una partita di scacchi già giocata. La sceneggiatura si muove goffamente su due binari paralleli, presentandosi dapprima in veste di dramma leggero con sprazzi di commedia, poi come fedele trasposizione del romanzo di Flaubert. E’ suggerita una soluzione che colpevolizzi tutti gli uomini di Gemma, responsabili del suo destino. Peccato che lo studio narrativo e la superficialità registica non consentano di rendere ragionevoli conclusioni di questo genere –di per sé già estremamente opinabili–. Ne deriva l’impressione che la Fontaine stessa non abbia colto il significato dell’opera flaubertiana se, per bocca della protagonista, la definisce “una storia banale ma raccontata da un genio”.
Erica Belluzzi
di Anne Fontaine
con Fabrice Luchini, Gemma Arterton
Francia, 2014
genere, drammatico
durata, 99'
Sono passati più di centocinquant’anni da quando Gustave Flaubert travolse la letteratura presentandosi al mondo con Madame Bovary –celebre la frase Madame Bovary c’est moi–, ma pare che l’adultera più famosa della letteratura francese abbia ancora qualcosa da dirci. Fortunatamente Flaubert non può assistere all’ennesima banalizzazione del suo romanzo, la cui protagonista è spesse volte trivialmente assimilata al ruolo di meretrice o casalinga annoiata, come è perfettamente in grado di fare Anne Fontaine con Gemma Bovery, presentato in concorso alla 39° edizione del Toronto Film Festival. La Bovary della Fontaine non ha nulla dell’archetipo letterario e cinematografico che ha ispirato intere generazioni di donne a rifuggire la noia e il quieto vivere, né al tempo stesso vuole proporsi quale moderna anti-eroina progressista, ma si accontenta piuttosto di essere un punto d’incontro tra una triste commedia sexy e una meditazione meta-letteraria sul rapporto che intercorre fra l’arte e la vita. Basato sulla novella grafica di Posy Simmonds, la vicenda è narrata in flashback attraverso gli occhi di Martin Joubert (Fabrice Luchini), a partire dal momento in cui legge i diari di Gemma (Gemma Arterton), il cui contenuto andrà ben presto a mescolarsi coi suoi personali ricordi di quel che accadde alla giovane donna. Dal presente della narrazione Martin torna con la memoria al momento in cui, dopo anni di vita parigina decise di tornare in Normandia –regione in cui Flaubert scrisse il suo capolavoro–, per riprendere in mano l’attività paterna assieme alla moglie. L’arrivo di Gemma con il marito Charles (Jason Fleming) scuote completamente la vita e l’equilibrio del pacifico Martin, che in un solo attimo assiste all’ “epilogo di dieci anni di tranquillità sessuale”. Il suo sguardo, implorante e bramoso verso Gemma, tradisce una passione suscitata tanto dal desiderio fisico quanto dal suo personale amore per il romanzo di Flaubert, arrivando al punto di scorgere nella vita di Gemma inquietanti parallelismi con quella di Emma Bovary. Né la regia né la sceneggiatura paiono essere minimamente preoccupate per la profondità tematica di cui il testo originario è portatore, tanto da prostituire la vicenda a mero intrattenimento. Tale leggerezza è anche il più grande difetto della pellicola, poichè risulta difficile trovarsi realmente coinvolti nella vicenda di Gemma. Come l’eroina flaubertiana, la donna vive in una casa fatiscente attorniata da uno splendido appezzamento terriero nella campagna francese, e la sua noia e disaffezione sono il tipo di problema che può permettersi di avere solo chi non ha altre vere responsabilità da affrontare. Considerando il secolo e mezzo che separa le due donne, Gemma è più libera di lasciare in qualsiasi momento una vita banale che non sopporta –e che non per questo la rende una persona non banale, come invece Charles sostiene-, ma per le convenzioni di questa storia, la regista cerca disperatamente di convincere il pubblico che la protagonista non abbia altre possibilità. Se non altro, Fontaine sa come rendere le sue attrici ammalianti e in ogni fotogramma la Arterton è a dir poco luminosa, ritratta come una femme fatale a cui quasi nessun uomo può sfuggire. Ma purtroppo alla fisicità dell’attrice viene attribuita una importanza eccessiva, tale da rendere caricaturale e troppo sospirata –oltre che del tutto fuori luogo– una sequenza in cui Martin le insegna come impastare il pane.
" Gemma Bovery" ha difficoltà a muoversi oltre la superficie della storia. Come narratore, Martin è una figura quasi bidimensionale, la cui psicologia non è assolutamente indagata. Non è possibile spiegare il suo bisogno d’amore senza ricorrere a generiche considerazioni circa l’età e la mancanza di charme della moglie (Isabelle Candelier). Mentre il film prosegue, l’ossessione di Martin per Gemma sfiora il patetico e, come per i vari uomini della vita di lei – il marito, l'amante o l'ex-fidanzato–, anche lui diventa semplicemente una pedina in una partita di scacchi già giocata. La sceneggiatura si muove goffamente su due binari paralleli, presentandosi dapprima in veste di dramma leggero con sprazzi di commedia, poi come fedele trasposizione del romanzo di Flaubert. E’ suggerita una soluzione che colpevolizzi tutti gli uomini di Gemma, responsabili del suo destino. Peccato che lo studio narrativo e la superficialità registica non consentano di rendere ragionevoli conclusioni di questo genere –di per sé già estremamente opinabili–. Ne deriva l’impressione che la Fontaine stessa non abbia colto il significato dell’opera flaubertiana se, per bocca della protagonista, la definisce “una storia banale ma raccontata da un genio”.
Erica Belluzzi
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