mercoledì, febbraio 04, 2015

THE ICEMAN

di: A.Vromen
con: M.Shannon, R.Liotta, W.Ryder, C.Evans, R.Davi, D.Schwimmer, J.Franco, S.Dorff.
- USA 2012 - Drammatico - 105 min.


Con tutta evidenza, portava in se' qualcosa in più della sua delicata malinconia la strofa per cui "c'è un posto nel cuore dove tira sempre il vento". Come che sia, una traccia di tale assunto può essere, ad esempio, evinta dalla paradossale, inquietante e realissima parabola - ricostruita a partire dal romanzo di A.Bruno, The 'Iceman': the true story of a cold-blooded killer - di Richard "Ritchie" Kuklinski, detto anche, in maniera più spiccia (e spregiativa) "polacco", monade impenetrabile all'interno dei meandri della quale di vento deve esserne soffiato parecchio, a giudicare almeno dal centinaio e passa di decessi violenti che il suo imperversare ha causato in un intervallo di tempo di poco superiore al ventennio - tra la meta' degli anni '60 e il volgere degli '80 - entro i paraggi silenziosi dei sobborghi e delle aree suburbane della costa orientale degli Stati Uniti, luoghi cari, per intendersi e per dire, ai nevrotici e agli insoddisfatti perenni tratteggiati da Richard Yates nei suoi romanzi e racconti.

Tipico rappresentante del super-uomo-qualunque la cui persistenza nel corpo sociale risulta direttamente proporzionale alla sua relativa invisibilità, Kuklinski (incarnato con piglio implacabile da divinità sumera da Shannon) e' un uomo schivo, taciturno, agli occhi delle cosiddette persone comuni non di rado imprevedibile e stravagante, che, alla prima frattura netta nel rincorrersi anonimo dei giorni non esita, in una sorta di personale chiusura del cerchio della schizofrenia dell'individuo-massa e allo scopo di porvi argine, ad abbracciare il vuoto - già ai tempi ben solido e capillarmente distribuito - spezzando in un due monconi la sua esistenza. Da questo istante in poi abbiamo, infatti, da un lato, il Kuklinski ex montatore a cottimo di film porno per il mercato illegale dove sguazzano, tra gli altri, ceffi alla Roy DeMeo/Liotta; il sedicente agente di cambio o l'intermediario immobiliare, tre-persone-in-una, le quali, sul più classico dei fili di rasoio si sbattono per tenere in piedi e compartimentare il ménage familiare con annessa routine quotidiana (in ossequio ai dettami del vuoto standard per antonomasia a nome vita normale); dall'altro, il metronomico sicario al soldo del crimine organizzato, prima, e in singolare e autosufficiente connubio con un altro originale della morte-al-lavoro, "Mr.Freezy"/Evans, poi, coincidenza che innesca l'avviamento di una vera e propria succursale del massacro, munita tanto di oliata catena di montaggio (eliminazione/macellazione/refrigerazione), quanto di un variopinto e macabro armamentario di litoti coerenti nella loro asettica corrispondenza ad un reticolo di rapporti sanguinari che appunto e solo nel sangue trova la sua incontrovertibile ragion d'essere e fonte di ossigeno per la sussistenza del triangolo denaro/fedeltà-omertà/punizione.
Ed e' esattamente questa doppiezza vuota - che Vromen tallona e descrive senza distrazioni (ecco il pregio più grande di un film comunque teso e disperato), come coordinate esclusive di un mondo tumefatto e disadorno che non ammette altro da se' se non il trionfo della Morte, in lucido e misurato controcanto, per inciso, con l'invalsa rappresentazione tra il favolistico e il caramellato che ha colonizzato una gran fetta dell'immaginario relativo agli anni '60 e '70, in più ben restituito, nel gioco delle strade deserte, dei vicoli sudici, dei cortili solo in apparenza confortevoli, degli interni sempre minacciati da un buio incombente, dal viluppo di luci opache ma dense, anch'esse raggelate, intessuto da Bobby Bukowski, già collaboratore decisivo per Moverman e Pellington - che finisce per collocare un uomo fondamentalmente solo, la cui proverbiale freddezza e' in parte ascritta all'irrigidimento conseguente ad un'infanzia ispessita dalle vessazioni, proprio sul punto di congiunzione - e ovvia critica instabilità - tra due abissi tali ma contraddittori, entrambi latori di uno specifico e, alla lunga, incontrollabile orrore: quello sedimentato dalla mediocrità, dall'ipocrisia e dal grigiore del (presunto) decoro piccolo-borghese, di primo acchito desiderabile e preferibile (una moglie giovane e, tutto sommato, devota, che ha il viso aggiustato e le grazie appesantite di Winona Ryder; due ragazzine graziose per figlie, di certo ignare e innocenti, eppure circonfuse da una soave petulanza; i rituali meccanici, tuttavia nell'immediato consolatori, della convivialita' e delle frequentazioni); e quello arcigno, crudele e irrazionale che ribolle sottotraccia, tra gli istanti ansiosi di una vita senza tregua, di molteplici umori arcaici, clanici, ossessivamente carnali, proprio della delinquenza, della generica illegalità, da prassi e per geni incline a secernere l'inumano in quantità non smaltibili dall'animale sapiens medio.

Esclusa dalla resipiscenza, dalla redimibilità, dalla riabilitazione (il polacco si vide comminare diversi ergastoli, mori' in carcere nel 2006 in circostanze ancora non del tutto chiare, non ebbe mai più contatti con la famiglia), la scia rossa di Kuklinski resta impressa come l'assorta constatazione di Marcus/Dafoe in "John Wick" (a margine, dignitosa serie-B, questa, passata quasi inosservata assieme all'equalizer di Fuqua, esempi di cinema-di-filiera i cui protagonisti, nel particolare, palesano più di un aspetto in comune con l'uomo di ghiaccio), "Niente accade per un motivo. Oggi non e' che un giorno tra gli altri", ossia come la promessa ribadita da quel vento di tornare a spazzare di nuovo e daccapo la Terra.


TFK

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