martedì, marzo 15, 2016

LUPIN III - IL FILM

"Lupin III"/Il film
di Kitamura Ryukei.
con Oguri Shun, Tamayama Tetsuji, Tadanobu Asano, Ayano Go, Kuroki Meisa, Jerry Yan, Nick Tate.
Giappone 2014
genere, azione
durata, 135'



Jigen:"Non ci si può fidare delle donne, Lupin".
Lupin: "Parliamo di Fujiko".
Jigen: "Allora ancora meno".


L'ovvia cautela che contraddistingue la frequentazione di oggetti pericolosi e/o di pregio, spesso ne sacrifica la diretta e appagante fruizione, ingenerando, a seconda degli esiti, prostrazione o disamore, per non dire entrambi. Se è sensato considerare, cioè, già gramo il destino di personaggi reali intestatari a vario titolo di una più o meno radicata leggenda nell'istante in cui si vedono misconosciuti da attribuzioni denigratorie o addirittura false riguardo la propria legittimazione a tale inusuale rango, figurarsi la sorte - a questo punto, quantomeno ambigua - a cui sono esposte quelle figure della fantasia e dell'ingegno le quali, per l'appunto in virtù della loro inesistenza, favoriscono possibilità pressoché infinite di proiezione intellettuale, emotiva, estetica, mitopoietica tali da creare, al tempo, universi autonomi e coerenti e criteri di calibratura e manipolazione degli stessi assai fiscali, a dire, perlopiù, allergici a riletture troppo drastiche quanto, talvolta, irrispettose di quei fragili equilibri sentimentali sedimentatisi in anni di appassionata fedeltà. Alla luce di ciò, diventa sul serio banale - sebbene non meno vera - la constatazione relativa all'insidiosità intrinseca ad un'operazione finalizzata ad un nuovo trasferimento dal mondo dell'animazione a quello delle persone-in-carne-ed-ossa di un eroe del calibro di Lupin III. E del resto - rovesciando i termini della questione - proprio la circospezione adoperata dal Cinema durante un così lungo intervallo nei confronti dell'irresistibile guascone (infranta solo da un tentativo azzardato oramai oltre quattro decenni or sono), autorizzava il sospetto - finendo, di fatto, per l'intanto, un differimento via l'altro, per ribadire la prassi di una sorta di attesa sine die - circa l'instaurarsi di un circolo vizioso che, va a sapere se e come, un giorno avrebbe trovato il modo di spezzarsi.


A tale dilemma ha tentato ora di dare risposta - benché penalizzato, almeno dalle nostre parti, da una distribuzione eufemisticamente frettolosa - Kitamura Ryukei (autore già con qualche timbro occidentale sul proprio passaporto cinematografico, pensiamo alle incursioni di genere, tipo "The midnight meat train", 2008, e a "No one lives", 2012), predisponendo un film, nelle intenzioni visibili, in grado di replicare lo spirito originario di un'avventura - quella di Lupin e dei suoi compagni di viaggio - dotata di un suo preciso eppur variegato ubi consistam, innervandolo con quelle sfumature caratteriali che rimandano allo specifico concreto del contesto umano. Il risultato, apprezzabile per slancio, convince in parte, il grosso della quale è da ascrivere all'agile sovrapponibilità del cast alle fisiognomiche di riferimento: Oguri/Lupin, Tamayama/Jigen, Ayano/Goemon, Kuroki/Fujiko e Asano/Zenigata, in altre parole e per rimanere ai volti più noti, non sfigurano al momento dell'inevitabile confronto con i prototipi, pur limitandosi a ricalcarne, con maggiore o minore ossequiosità, le indoli. Astuto mistagogo della sempreverde arte della delinquenza, gradasso e un po' cialtrone ma nonostante tutto cuorcontento e inguaribile Romeo, Lupin; taciturno, cecchino provetto, cinico e mordace, Jigen; samurai imperturbabile, spadaccino letale a colpi di katana che-taglia-il-ferro, Goemon; maliarda, fintamente indifesa, vezzosa doppiogiochista, Fujiko; nevrotico, irascibile, confusionario e patetico,  Zenigata, Ispettore dell'Interpol... Stesso tenore riconoscibile, peraltro, nell'interazione discorsiva che caratterizza il motteggio tipico del protagonista con i suoi interlocutori d'elezione: disillusa/ribalda quella con Jigen; ridotta all'osso in una sorta d'incedere marzial-metaforico quella estorta al più che laconico Goemon; romantico/allusiva, sempre frustrata da qualche contrattempo o premeditato (da parte di lei) colpo basso, quella con Fujiko; per certi versi persino freudiana (nel senso di un legame latente non solo dialettico tra un padre tormentato e un figlio oltremodo scavezzacollo), quella col perennemente un-passo-indietro Zaza Zenigata (non a caso chiamato pure paparino). Spiccano dal quadro di riferimento, in questa che, per comodità, potremmo chiamare metamorfosi mimetica, introducendo vieppiù talune di quelle sfumature squisitamente umane a cui si faceva cenno, tanto la Fujiko di Kuroki, ambigua e frivola, come incontestabilmente sensuale e provocatoriamente indisponente, quanto proprio il Zenigata di Asano, spassoso e incontenibile nei frangenti di arresa malinconia, come e più nel furore sgangherato latore di costruzioni cervellotiche atte ad incastrare l'odiato/amato avversario, coronate, figurarsi, da inesorabile insuccesso e spossata disperazione. Ad ulteriore merito del lavoro di Kitamura, va inoltre menzionata, in primis, la conservazione protocollare di un qual gusto pop, di certo una delle carte vincenti della serie animata (colori accesi; ironiche sospensioni sui volti ammiccanti dei protagonisti: risatine, acrobazie in forma di danza, simpatici nonsense); la cura per i dettagli (dal guardaroba di Lupin - le celebri giacche: rossa, nera e verde - i di lui calzoni stretti un po' alti sulle scarpe, come il taglio di capelli e le basette ben marcate; al cappello moscio, il completo nero e la barba rada di Jigen; dalle mise mozzafiato di Fujiko, all'impermeabile stropicciato, a riparo da qualunque moda e cambio di stagione, di Zenigata: fino all'immancabile 500 gialla, qui in doppia versione, tradizionale scatola-di-sardine e stilosa vetturetta calibrata sul gusto di un nuovo millennio); l'evidente vocazione giramondo della vicenda, nonché il suo tono di fondo scanzonato e innocuo (ubbie e dolori a convergere docilmente nel vortice dell'azione; i cattivi che muoiono a manciate ma quasi senza-colpo-ferire e carta bianca per maramaldeggiare): tutto, ancora come da repertorio, introdotto, sostenuto e accompagnato da un morbido andirivieni jazzy.




D'altro canto, è pur vero che funziona meno sia l'oggetto del contendere (si passa da un manufatto detto La medaglia di Zeus, attraverso un collier egizio - con tanto di enorme rubino incastonato, appartenuto al tragico lignaggio di Cleopatra - alla mobilitazione per arrivare a dar scacco ad un super magnate del malaffare globale e al suo potentato), che la sua progressione narrativa, penalizzata sovente nel ritmo da parentesi riflessive o esplicative, a dar fiato ai contendenti fra un certame e l'altro. Relativamente macchinoso e un tanto arrangiato anche il comparto degli effetti speciali, con numerosi combattimenti risolti alla buona o in sede di montaggio, e un discreto numero di ralenti che, privati della loro imponderabilità-in-punta-di-matita, vanno in relativo anonimato ad ingrossare la pletora di espedienti simili a spasso per le scene d'azione di mezzo mondo di celluloide, ossia ad oggi, dopo l'ennesima riproposizione, ad aggiungersi al novero degli accorgimenti molesti.

Permane così - e in sintesi - l'impressione di un esperimento condotto a mo' di prova generale di un più impegnativo (si spera) progetto a venire. L'inerzia pare già propendere per un rilancio al tavolo grosso, a giudicare almeno dall'incoraggiante prima mano riscossa dal film di Kitamura. E nel 2017 il criminale più simpatico del mondo compie i suoi primi cinquant'anni...
TFK 

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