Poison
di Todd Haynes
Scott Renderer, James Lyons, Edith Meeks, Millie White
USA, 1991
genere,
drammatico, horror
durata, 85’
Con il successo dell’ultima opera - “Carol” - la Fondazione
Cineteca Italiana a Milano ha programmato un omaggio al regista americano Todd
Haynes, permettendo di visionarne l’intera e breve filmografia: appena sei
lungometraggi distribuiti in venticinque anni di carriera. Nato a Encino,
California, nel 1961, Haynes, dichiaratamente gay, ha sempre messo in scena
storie dove la sessualità in qualche modo viene mostrata come affermazione di
libertà in individui che affrontano una società repressiva e bigotta.
“Poison” è l’opera prima del regista, inedita in Italia e in
anteprima assoluta, la cui sceneggiatura (scritta dallo stesso Haynes) è
ispirata ai romanzi semi-autobiografici del controverso scrittore e
commediografo francese Jean Genet. Il film si sviluppa su tre storie: la prima,
“Hero”, parla di un bambino che uccide il padre e poi fugge volando dalla
finestra (come afferma la madre testimone); nel secondo, “Horror”, un giovane
scienziato sintetizza un elisir della sessualità umana che agisce sugli ormoni,
che beve accidentalmente e lo trasforma in un mostro e untore, diffondendo la
malattia in tutta la città, infettando anche la sua assistente innamoratasi di
lui; “Homo”, ambientato nel mondo carcerario, dove un piccolo delinquente è
attratto da un altro prigioniero che aveva visto umiliato in una struttura
minorile in passato e da entrambi frequentata.
Film sperimentale e indipendente, all’epoca dell’uscita fu
al centro di polemiche della destra conservatrice religiosoa americana per le
forti immagini di omosessualità esplicita e per i temi della malattia trattata
sotto tutte le sue forme (sociale, sessuale, morale), vincendo un premio al
Festival di Berlino del 1991 e il Gran Premio della Giuria al Sundance Film
Festival dello stesso anno, e diventando uno dei manifesti del New Queer Cinema
(a tematiche LGBT).
Già in questa opera prima, Haynes mette in scena tutte le
tematiche che svilupperà in modo più completo ed espressivo nei film
successivi: la malattia (“Safe”); l’ipocrisia di una società che vede il
diverso come un alieno da soffocare e nascondere (“Velvet Goldmine”, “Lontano
dal paradiso”, “Carol”); l’omosessualità vista come una malattia, un “cancro”
da curare (“Lontano dal paradiso”); le convenzioni sociali che vedono la loro
nascita e pilastro nella famiglia etero da salvaguardare a ogni costo (“Lontano
dal paradiso”, “Carol”). Haynes svela i retroscena emotivi delle lotta dei
personaggi per l’affermazione della propria libertà personale, giocando sulle
emozioni trattenute, i sentimenti che scorrono sottotraccia come una corrente
magmatica pronta a esplodere in qualsiasi momento, riuscendo sempre a
controllare e centellinare la materia di cui vuole parlare, cercando di rendere
quanto la cosiddetta “anormalità” sia solo negli occhi di chi guarda e nelle
convenzioni di una comunità chiusa, impaurita, bloccata a ogni evoluzione
sociale e culturale, dove la freddezza dei rapporti umani è regolata da leggi
morali non scritte, ma applicate in una quotidianità solo in superficie linda e
perfetta, immutabile e ripetitiva.
Del resto “Poison”, fin dal titolo, rivela in modo esplicito
le tematiche sottese: il significato della parola in inglese vuol dire
avvelenare, guastare, corrompere, intossicare, pervertire. Un “veleno” che
viene disvelato sotto diverse forme. E anche la scelta estetica è interessante.
Se “Hero” appare come un’inchiesta giornalistica televisiva, composta da
interviste ai protagonisti della vicenda, e in particolare alla madre del
bambino, disvelando le vere ragioni delle azioni del ragazzino che non vediamo
mai, “Horror” invece è la sezione dove impera un bianco e nero (poco amato da
Haynes che invece preferisce l’uso di palette di colori vari e caldi in modo
espressivo) strutturato come un film di genere degli anni Sessanta e metafora
esplicita dell’AIDS e della paura della malattia (e del malato), reso visibile
dagli ascessi sui volti dei personaggi e dalla recitazione sopra le righe
tipiche di quel genere di film di serie B. Mentre “Homo” è forse la parte più
chiaramente debitrice alle opere di Genet, con un gusto teatrale della messa in
scena e un utilizzo del colore più vicino al melodramma che fiorirà negli
ultimi film come “Lontano dal paradiso” e “Carol”, ispirandosi al melodramma
americano degli anni Cinquanta.
Le opere di Haynes hanno avuto una grande influenza su altri
autori come Greg Araki e Gus Van Sant, mentre il regista americano in “Poison”
resta debitore nei confronti di un certo tipo di cinema del passato,
trasformandolo e traducendolo in modo originale (“Horror” a dire la verità è
più debitore nei confronti di un certo cinema cronenberghiano che delle opere
di Genet). Le tre parti sono messe in serie con un montaggio alternato che
costruiscono un’opera non episodica, ma rapsodica, mutante, postmoderna, capace
di imprimersi nella mente dello spettatore e svelando fin da subito il talento
di un regista con uno sguardo originale e personale che ne fanno un autore a
tutto tondo.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Todd Haynes”, Fondazione Cineteca Italiana,
Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a
Milanohttp://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/omaggio-a-todd-haynes/
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